26/01/10

Racconto di un lupo

di Cristina Taliento


Una notte di gennaio non riuscivo a prendere sonno. Avevo freddo ed i pensieri spiravano scomposti e gelidi come turbolenti venti del Nord. Fu allora che venne a trovarmi Kiriakos, il mio Angelo Custode. Accese un piccolo fuoco sospeso in aria e mi invitò a toccarlo. Quando protesi la mano verso le fiamme incandescenti mi accorsi subito che le fiamme emanavano calore, ma non bruciavano. Lo ringraziai silenziosamente e ritornai sotto le coperte. Eppure qualcosa mi diceva che lui non se ne era andato e mi fissava ancora in cerca di ascolto. Sapevo bene che Kiriakos era il più grande narratore di tutti i tempi; spesso mi raccontava che nella sua vita passata era stato un aedo che cantava i suoi versi in giro per la Grecia. Così intuii che il mio amico aveva una storia da raccontarmi e io, che quella notte non avevo meglio da fare, mi drizzai sul letto e lo stetti a sentire.


Sotto il mantello grigio consumato tirò fuori un vecchio libro dal colorito giallognolo e lo aprì a metà, dove tra le due pagine si estendeva una cartina geografica. Il suo dito indeciso scorreva lento sulla superficie e si fermò ad indicare la lunga linea marrone delle Montagne Rocciose. Allungai il collo per scrutare nell'oscurità quello che voleva mostrarmi e feci un cenno con la testa per dire che avevo capito. Kiriakos mi rimproverò perchè, come al solito, non avevo guardato in profondità, ma mi ero fermata alle prime apparenze. Allora mi sforzai di aguzzare la vista e lo vidi. Un piccola scheggia veloce scendeva lungo i pendii delle montagne e dal Canada si spostava veloce verso il Colorado. Il mio amico mi sussurrò che si trattava di un lupo, un giovane lupo solitario che aveva deciso di lasciare il branco. Si chiamava Shaun, che in gaelico significa "grazia di Dio", ed era una ragazza.


Shaun non era venuta al mondo da sola, ma fu partorita insieme ad altri due lupi: Fellon e Nuala. I tre erano molto uniti, cacciavano insieme e si sarebbe detto che niente mai li avrebbe separati. Formavano un piccolo branco nel branco generale. Passarono gli anni, i lupi crescevano, e una notte, mentre il branco era impegnato nell'inseguimento di alcune volpi, Shaun si allontanò e iniziò a vagare da sola per i boschi. Era stanca e si fermò a riposare ai piedi di un gigantesco albero fra le lunghe radici, ma, mentre batteva il fogliame per trovare una posizione, il terreno sotto di lei sprofondò e la giovane lupa cadde in un basso.


Shaun prese ad ululare spaventata dal buio misterioso, ma all'improvviso il posto si illuminò di un chiarore lunare e rivelò la tana di un animale. Accovacciato c'era una talpa che, dopo averle dato il benvenuto, le disse che la stava aspettando e che aveva già previsto il suo arrivo. Shaun era la prescelta, a lei toccava il dono che ogni altro lupo aveva desiderato: raggiungere la luna con un volo.


Quando uscì dalla tana ,volando, Shaun si rannicchiò su una roccia, con il muso puntato alla luna e poi, rapidamente, distese i muscoli e spiccò il volo. Camminò nell'atmosfera celeste fino ad atterrare sulla superficie lunare. Scoprì la felicità che non aveva mai provato.


Ma quando tornò nel branco entusiasta, dimostrò la verità sul suo dono e, da quel momento, tutti gli altri lupi, compresi i suoi fratelli, la iniziarono ad evitare. Poco dopo fu accusata di aver rubato delle scorte del branco e Padraig, il capo, la cacciò via.


Shaun ritornò dalla talpa e la implorò di toglierle il dono perchè ciò la rendeva invidiata ed esclusa, ma la talpa le disse che non si poteva rifiutare un dono prezioso solo perchè gli altri non ne erano in possesso. "Sei speciale, Shaun-le disse- non privarti di te stessa".


Ma Shaun soffriva perchè amava il suo dono e gli altri non le davano modo di apprezzarlo. Così decise di diventare un lupo solitario e di vivere la sua felicità da sola liberandola dai limiti e dalle reti in cui gli altri la avvolgevano. Cantava alla luna ogni notte, la ammirava e con un balzo la raggiungeva. Si sentì... libera.





Quando Kiriakos finì di raccontarmi questa storia pensai che non era delle migliori. Gli feci un sorriso a labbra serrate. Poi chiuse l'Atlante, mi salutò e se ne andò. Io lo guardai scomparire insieme al suo fuoco. Adesso tutti quei pensieri che si erano aggrovigliati nella mia testa non sembravano poi così terribili.

24/01/10

Sulle spalle dei Giganti

di Cristina Taliento

"Siamo come nani sulle spalle dei giganti, sì che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non per l’acutezza della nostra vista, ma perché sostenuti e portati in alto dalla statura dei giganti" Bernardo di Chartres, XII secolo

La storia, il passato sono come enormi Ciclopi che ci fanno accomodare sulle loro spalle e, grazie a loro, la nostra vista viaggia sopra le nubi, arriva a scorgere le vette più alte. Ci sentiamo come il figlio piccolo sulle spalle del padre. Invincibili.

Guardare lontano e più lontano ancora dove l'impossibile muore nelle aspettative di tutti. Muore nelle aspettative di tutti. Nelle aspettative di tutti. Tutti.

Poi un lampo, uno sguardo frettoloso che non vorrebbe mai sostare su quelle ferite che ricoprono il corpo dei nostri Ciclopi. Sangue rappreso sulle braccia muscolose, lividi viola sulle ginocchia, frustate sulla schiena. Tagli che il tempo ha cicatrizzato, ma non guarito. Segni di violenza, tirannia, abuso del potere, schiavitù, omicidio, frode, guerre, olocausto,sfruttamento. Le ferite bruciano ancora, ma noi sappiamo che per non sentire il dolore basta non pensarci. Pensare a qualcosa di dannatamente "bello". Così le statue, le vie, le scuole intitolate a chi si è battuto non diventano che pezzi immobili che entrano nella memoria di ciascuno in modo silenzioso fino ad innescarne l'abitudine. Ci rifiutiamo di scrutare il male, preferiamo metterci sopra un comodo cerotto che ci eviti di sussultare alla vista del sangue. Ma non tutto il passato è passato. Gli errori del passato non si posso inscatolare in una Giornata della Memoria come i fagioli e le noccioline. Non ha senso commemorare il 27 Gennaio delle vittime che chiedono ancora giustizia. Non ha senso fare fiaccolate, mostrare foto di gente denutrita nei campi di sterminio per descrivere la cattiveria schifa dell'uomo; una cattiveria che rivive così palese ai nostri giorni, una cattiveria che non rivive nella più cupa follia, ma nella ragione, si nasconde meschina dietro ideali, agnelli e iene.

Non si può rivolgere il pensiero solo per un singolo giorno a quello che è stato. Bisogna pensare seriamente mettendo in conto vecchie e nuove spiagge dove l'errore si è arenato. Il cancro non è guarito, non lo sarà mai se consideriamo la storia a compartimenti stagni. Quei giganti che ci sorreggono sono più fragili di quanto pensiamo e noi non possiamo credere di essere invincibili.

(Cristina Taliento)

21/01/10

Camicia di forza

di Cristina Taliento




E sto piangendo dal sonno, con la stanchezza nelle lacrime salate. Salate di rabbia, di indignazione, che nonostante tutto non si fanno prendere dalla rassegnazione. Dietro le sigle dei telegiornali quante cose che non vanno, quanti fatti distorti dai furbi e dati in pasto agli sciocchi, allocchi. Fantocci. Inutili spaventapasseri da campo che credono di sapere, i nostri politici; inutili pezzi di paglia bruciata al sole che fanno paura agli uccelli più stolti. Scarpe da riverniciare con più di cinque strati di vernice trasparente, ma la trasparenza è una stupida illusione, un'utopia. Maledetta parola "utopia". Maledetta parola. "Utopia" è la parola preferita di chi s'arrende, di chi è stanco di lottare e, mentre si accende una sigaretta, sdraiato, sussurra "utopia". La fine della guerra non è un'utopia. Non lo può diventare, maledizione! Andatelo a raccontare agli orfani iracheni che la pace non esiste, andatelo a raccontare alle mogli dei marine,  andatelo a raccontare a chi vi pare. Andatelo a raccontare alle montagne dell'Afganistan, le più belle del mondo, che non ci saranno più mine anti-uomo sui loro pendii, ai mutilati, ai reduci delle guerre passate. Smettetela, oh imbecilli di Mediaset, di trasmettere John Rambo. Smettetela, giornalisti che non onorate il vostro titolo, di ovattare le menti delle persone con le vostre notizie che alimentano il razzismo, l'odio. Smettetela di trasmettere notizie che vedono gli extracomunitari come protagonisti di stupri e furti. Dove volete portarci con tutto questo odio? Le ronde già esistono e fanno schifo. Sono un fenomeno riprovevole alimentato da quelli stessi sentimenti che cinquantanni fa spingevano le camice nere a girare la notte per picchiare gli oppositori. Legalizzate i bastoni, legalizzate i pugni di cittadini comuni. Chi siete? Che volete? Cosa ne volete fare delle nostre menti? Quest'inutile "utopia" deve finire. Che nessuno si crogioli nella mentalità che qualcosa non possa cambiare, ma prima aprite gli occhi. Tutti. Ci stanno mangiando.

14/01/10

Lo struzzo

di Cristina Taliento

Questa è la breve storia di uno struzzo.
Quindi adesso potete anche rilassare quel sopracciglio che all'improvviso si è curvato e decidere di cambiare l'oggetto della vostra lettura. Non dipenderà da me.
Questa, per voi curiosi che restate, è la storia di Fasco, un giovane struzzo del sud del Kenya che voleva scappare da se stesso. Si odiava talmente tanto che spesso sotterrava la testa nella sabbia rossa per evitare di guardare quello che credeva "un orrido aspetto". Nessuno ha mai capito perchè Fasco non si accettasse. Nessuno glielo ha mai chiesto. Nella sua specie era uno struzzo come tanti altri, ma forse nel suo animo un'eccessiva sensibilità lo portava ad ingigantire ogni aspetto negativo del suo essere. Qualcuno ha persino ipotizzato che egli sognasse di diventare un "uomo". Sebbene il suo odio fosse esagerato e insostenibile, Fasco non decise mai di porre fine alla sua vita perchè in Kenya vedeva i bambini morire di fame giorno dopo giorno, notava la sofferenza che inondava gli occhi delle loro madri e, il suicidio, in quelle terre era una beffa a tanta disperazione.
Un giorno nella jeep di un turista americano Fasco intravide un fumetto con l'enorme scritta "Fuggi da te stesso- Numero 23. ". Lo aprì e scoprì che si trattava di un uomo un po' strano dal nome di Clark Kent che, stanco della propri vita, salì in sella di una moto e partì lontano.
Fasco non aveva mai visto una moto, ma pensò che doveva avere lo stesso scopo di una macchina. Doveva essere veloce.
Provò a salire nella jeep ma il suo collo era troppo lungo e, disperato, si distese sulla terra bollente. Passò da lì un vecchio dalla barba bianca con la pelle bruciata dal sole, lo guardò dall'alto e disse: "Smettila di fuggire da te stesso, idiota di uno struzzo, perchè da te stesso non ci scappi nemmeno se sei Clark Kent. Vai a correre, buono a nulla!"
Fasco per un momento pensò di ucciderlo a colpi di becco, ma poi iniziò a pensare che forse il vecchio aveva ragione. Così iniziò a correre velocissimo sfiorando i 70 km/h. Il suo cuore stava quasi per esplodere; guardava il cielo mentre le sue esili gambe si muovevano rapide. Corse per il tempo necessario che ci voleva a cancellare le sue paure. Quest'ultime correvano veloci, ma lui le aveva superate.
Quando i pensieri e le ansie sfrecciano nella vostra mente, sappiate che la migliore cura per liberarvi da esse è correre più veloci che si può e, se ne siete capaci, gridate anche. Correte e gridate. Capirete che non volevate fuggire da voi stessi, ma entrarci.

13/01/10

Uno sfortunato incontro

di Cristina Taliento

"Lui si prende gioco di cicatrici, che non subirono mai ferita. Ma dolce! Che luce è quella che viena attraverso la finestra?"
"Questa se non mi sbaglio è la scena del balcone, giusto?"
"Sorgi bel sole e uccidi la luna invidiosa, che è già stanca e pallida per il dolore. Così tu, sua ancella, sei molto più bella di quando..."
"Basta così Romeo. Ho solo un quarto d'ora per parlare con te. Dopo inizia un film su Rai 2"
"Ehm... chi sei o giovin fanciulla che giungesti a codesta ora dell'alba?"
"Per favore, non iniziare a parlare così... dobbiamo comunicare non decifrarci a vicenda"
"Non hai risposto alla mia domanda"
"Facciamo che tu sei Romeo e io sono... ehm... Cristina"
"Non dubito del mio essere, ma del tuo... che nome è mai questo?"
"Non è colpa mia se non l'hai mai sentito. Stiamo perdendo tempo"
"Quanta fretta, donzella. Allora, cosa devi dirmi, di grazia?"
"Quanto ami Giulietta, l'ami davvero? Quanto l'ami davvero? L'ami?"
"Ti stai ripetendo"
"Rispondimi"
"Hanno scritto una tragedia sul nostro amore e girato numerosi film! Queste non sono domande! Lo sanno tutti quanto l'ho amata!"
"Tutti, lo ammetto, ma io non credo che ti sia innamorato di lei a prima vista, nel giro di un quarto d'ora, caro il mio Romeo. Ho sedici anni e, sebbene la mia età lasci spazio alle fantasie, non ci credo. Io non ho niente contro di voi, ma vi rendete conto?"
"Ho bisogno di restare solo"
"Me ne devo andare? ME NE DEVO ANDARE??? Bene, me ne andrei volentieri perchè la verità è che più ti guardo e più vedo quanto sei meschino e ipocrita."
"Parlami pure in tali modi! Ti metterai la critica del mondo intero contro..."
"Allora ti sfido a chiedere ad uno di questi critici come hanno conosciuto le loro mogli! Tu sei esistito sino ad ora perchè sei quello che nessuno sarà mai e la gente ama lo straordinario! Romeo, seriamente, credi di essere credibile? Non lo sei. Mi fai rabbia."
"Rabbia?"
"Si, mi fai innervosire. Sei solo una testa calda egoista da paura. Egoista, testa calda e mi fai innervosire!"
"Non è già iniziato quello che tu chiami film?"
"Si e parlando con te me lo sto perdendo. A mai più rivederci"
"Sfortunato incontro, oh giovin donzella, ma rifletterò sulle tue parole"

10/01/10

Sospesi nel vuoto

di Cristina Taliento








Il ragazzo che non invecchiò aveva un bello sguardo dietro gli occhialetti. Due occhi che continuano a fissare chi, con nostalgia e rispetto, si trovava a guardare la sua faccia sulla copertina di un CD o su una di quelle gigantografie che ogni tanto si trovano in città.

«Ehi, Mr. Lennon! Sta per entrare nella storia» dicono che Mark Chapman abbia gridato qualcosa di questo genere prima di assassinarlo con quattro colpi di rivoltella. E nella storia ci sta viaggiando proprio da quella sera dell' Ottanta.

Jimi Hendrix, svolta del rock, venne trovato morto il 18 settembre 1970. Nessuna lettera solo una raccomandazione per l'eternità. Jim Morrison, "il poeta maledetto", anche se io preferisco pensarlo come il poeta maledettamente sublime, pose fine alla sua vita e poco importa se per arresto cardiaco o per overdose. Lui era Il Grande che riuscì a "succhiare il midollo della vita", ("... The End... my only friend, The End... "). Poi, lui, come dimenticarlo, il ragazzo nero dalla pelle bianca, Michael Jackson. Noi non li vedremo mai con le rughe seduti ad una trasmissione serale a chiaccherare con il conduttore di quante donne ci sono state nella loro vita o di quanto sia stata fantastica la loro prima volta sul palcoscenico. No, non ci sarà l'annuncio di fine carriera fatto da un portavoce; per loro non ci sarà nessun cantante ragazzetto che li supererà nelle classifiche perché la loro è stata una corsa contro il vento, quando il cuore parte a mille e ti senti a due passi dal volare, come se in quei pochi minuti avessi provato tutta la felicità possibile. Una corsa senza il traguardo, una corsa sospesa nell'aria ai limiti del tempo e dello spazio. E che importa chi vince. Loro sono tutti lì che corrono nel vuoto e non si fermeranno mai. Mai.

09/01/10

2° Capitolo- Nella tela del Ragno

di Cristina Taliento


a Paola Gatto.

Gocce d'acqua scivolavano sulla superficie metallica e brillavano nell'oscurità. Il pavimento della stanza era bianco; gelido marmo bianco e pareti grigie circondavano un letto. Non c'era nient'altro. Solo un piccolo letto simile a quelli che si trovano negli ospedali. In lontananza si udiva "Guns" dei Greenday. Le note della canzone rimbalzavano sulla porta chiusa e ritornavano confuse da dove erano venute, come smarrite e ignare della loro destinazione.
Sotto il lenzuolo bianco cadeva abbandonato un braccio pallido e sopra il cuscino si intravedevano ciocche sparse di capelli. Il volto era coperto.
Nella musica triste e silenziosa si udì un rumore di passi rassegnati che si fecero sempre più incerti fino a bloccarsi del tutto davanti la stanza semivuota. Kyle esitò un momento, accarezzò cn la punta dell'indice il freddo della porta, poi infilò la mano in tasca e, dopo aver scelto la chiave giusta, aprì lentamente con la testa piena di pensieri. Attese qualche secondo prima di alzare lo sguardo e spingerlo sotto il lenzuolo; il tempo di raccogliere tutte quelle briciole di coraggio disseminate durante la sua vita. Si chiedeva se sarebbero bastate per sopportare... Una ciocca di capelli marrone spezzava in due metà il suo volto squadrato fino al labbro inferiore, che aveva preso a vibrare incontrollato. Poi di scatto i suoi occhi azzurri si spalancarono come attraversati da un lampo e rivelarono una sofferenza profonda, insopportabile. Due passi soltanto e sarebbe arrivato vicino al letto, ma ogni forza di resistenza del suo corpo lo immobilizzava e lo supplicava di non avvicinarsi. Rimase gelido a fissare quel braccio che pendeva da sotto il lenzuolo; la mano bellissima senza nessuna forza vitale si specchiava nel candore del pavimento e lo smalto celeste sulle unghie entrò nei ricordi di Kyle come un dardo infuocato. Una lacrima scese silenziosa lungo la sua mascella . Solo i Greenday in sottofondo in quel luogo ai limiti del tempo e dello spazio, pieno di dubbi e frasi non dette; pieno di rimorsi e rancori che si scioglievano come candele di cera all'inevitabile arrivo della fiamma.
La canzone finì e nell'attimo muto prima dell'inizio della successiva egli credette di sentire la sua voce da sotto il lenzuolo. Debole e delicata come un tempo; si avvicinò mentre il suo cuore dissanguato cercava di non cedere all'insopportabile dolore e lentamente protese il braccio verso l'estremità del lenzuolo, ma le dita i chiusero in un pugno e ritornarono sconfitte lungo i fianchi. Si sedette sul marmo e affondò il viso nella disperazione delle sue mani. Iniziò a piangere sommessamente mentre gli sopraggiungevano alla memoria spine appuntite di ricorsi e di rimpianti. Avrebbe dovuto dirle che la sua decisione l'aveva presa soltanto per proteggerla, lui non aveva previsto quello scempio; avrebbe dovuto dirle, trovare il coraggio, di guardarla negli occhi verde bosco e dirle quanto l'amava. Tra le lacrime uscì un rantolo di rabbia mista alla sofferenza. Doveva vederla per l'ultima volta. Si alzò animato da quella convinzione e questa volta la sua mano non tornò indietro; si mosse risoluta e sollevò il lenzuolo. Quando vide il suo volto pallido si sentì come se all'improvviso fosse stato immerso negli abissi più profondi.
Lei era distesa sul letto, il volto leggermente piegato di lato, era avvolto in una luce angelica, le sue labbra ricordavano il rosso dei papaveri di sera, quando i petali perdono la vitalità del loro colore sanguigno e si colorano di tinte più scure, ma comunque non smettono di essere i principi della campagna. Le sue palpebre fragili come ali di farfalle bianche.
Sembrava che stesse dormendo e anche lui, per un momento, perso nell'illusione di quella confortante ipotesi, lo pensò. Ma quando prese delicatamente la sua mano e sentì quanto era gelida e lontana, chiuse gli occhi e le lacrime si divincolarono tra le lunghe ciglia per poi cadere come piccoli cristalli sul pavimento. Doveva essere morta. Si chiese quanto aveva sofferto, se quei bastardi l'avevano toccata, se aveva implorato, se aveva avuto paura... tirò un pugno alla parete.
Poi capì che doveva andare per non destare sospetti. Gli sembrò stupido preoccuparsi ancora del Capo, adesso che lei era morta niente avrebbe avuto più un significato. Serrò le labbra bagnate dalle lacrime salate e, richiuso il lenzuolo, si diresse verso la porta pensando a cosa avrebbe fatto nei giorni, nei lenti mesi e negli anni che sarebbero venuti dopo. Si girò e fissò per l'ultimo straziante istante quel celeste dello smalto di lei. Con il polso si scostò le ciocche di capelli dalla fronte, poi abbassò lo sguardo e, cercando di trattenere le lacrime, rigirò la chiave nella serratura. Quando la porta fu chiusa rimase fermo a guardarla per un attimo, poi il suo sguardo sconvolto venne trascinato dai piedi che volevano fuggire per sempre. Iniziò a correre per il lungo corridoio non badando al fiato, che stava per finire, o al cuore, incapace di sostenere altro sforzo.