22/02/10

Memorie di un cane sentimentale- IV cap.

di Cristina Taliento


(view from Federal Hill, Baltimore)
Maryland, Baltimore-1950. Non sono mai stato visitato da un veterinario in vita mia, ma se adesso, proprio in questo momento, mi dovessi stendere su uno di quei lettini infernali, state pur certi - state pur certi, vi dico - che dalla bocca del dottorino uscirebbe la parola "artrosi canina" o un'altra barzelletta simile. Mi fanno male le ossa, ma noi cani non siamo come gli uomini, neanche per idea, e non vedo perchè dobbiamo essere visitati come bistecche di carne che ancora respirano. Tutto questo mi fa vomitare. Il tempo passa per ogni buon figlio di questo mondo e se voi, amici miei, sapete dare una degna spiegazione alla stupida mania umana di "allungare il tempo della vita" non vi resta che comunicarla. Ogni cosa ha una durata diversa e non siamo noi a decidere per quanto tempo dobbiamo esistere. Vi giuro che, quando questi quattro stecchi delle mie gambe finiranno di reggersi dritti, me ne andrò sotto l'ombra di un salice piangente e guarderò per l'ultima volta il sole. E penso che sarò anche piuttosto rilassato, se mi permettete. Così come ha fatto il mio sconosciuto padre e il mio ancora più sconosciuto nonno. E la faccenda si chiude qui. Non c'è altro da dire. Per il resto, sono sempre stato dell'idea che uomini e cani debbano vivere ognuno per i fatti suoi perché s'illudono continuamente di essere amici e poi finiscono per soffrire per le troppe differenze. Friedrich Nietsche, un filosofo di cui conosco poco, diceva che "le convinzioni più delle bugie sono nemiche pericolose della verità". Il vecchio Fred, se ci pensate bene, aveva ragione da vendere, ma è facile dirlo adesso. L'ho capito a mie spese, tanti anni fa, che questa mia avversione per i rapporti cane-uomo era solo una convinzione. Ho appena detto che lo penso ancora, ma adesso, mentre sono sull'erba a scrutare le nuvole, mi chiedo cosa sarebbe cambiato se non fossi stato così scontroso nei confronti dell'umanità.

Avete ragione, lo so cosa state pensando, sono un cane che è arrivato a destinazione e si chiede, come chi è arrivato a destinazione, cosa sarebbe successo se nella sua vita avesse fatto quello o quell'altro. Patetico, lo so. Eppure le nuvole mi fanno quest'effetto: nei loro contorni distinguo draghi ed enormi balene volanti, ma le cose che vedo più nitide di tutto il resto sono i rimpianti e la sagoma di una ragazzina di nome Lisa. Commuovetevi pure, facce di bronzo.

Quella volta mi divertivo a scavare nelle aiuole di Federal Hill Park e mi stavo divertendo un mondo a dissotterare fiori sotto lo sguardo minaccioso di una vecchina che lavorarava a maglia a pochi passi da me. La stavo indispettendo e questo bastava a colmare di gioia quel cuore
da disgraziato che avevo. All'epoca, infatti, l'unico modo per smettere di pensare a me stesso era pensare agli altri, ma non in quel modo sdolcinato che credete voi. Pensare agli altri per me significava stuzzicarli e mettercela tutta per farli arrabbiare. Insomma, quella volta ero lì che "pensavo agli altri" quando all'improvviso, non ricordo esattamente come sia successo, un'ombra mi oscurò e, prima ancora che me ne potessi rendere conto, qualcuno mi travolse, mi pestò la coda e mi premette le orecchie sulla terra. Credevo di essere morto! Sentivo il sangue alla testa ed un dolore lancinante all'altezza della coda. Non pensavo, non riuscivo a valutare nessuna possibilità di fuga. Era come se il mio corpo si fosse arreso di botto. L'unica cosa che aspettavo era il colpo di grazia. Uno... due... tre... perché non mi facevano fuori subito? Niente. Spostai l'orecchio dall'occhio semichiuso e tutto quello che vidi fu una ragazzina che correva come una dannata, inseguita da un uomo in divisa. Ormai era molto lontana da me ed io ero disteso come uno scemo, da solo per giunta, ad aspettare tealtralmente il colpo di grazia. Subito realizzai che mi avevano travolto per sbaglio e un po' mi sentii offeso da quella situazione. Io, travolto per sbaglio? Da una ragazzina, poi. "Che storia..." mi pare che pensai.

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