25/09/10

La storia semplice del Ragazzo Grifone

e della ragazza che se ne innamorò


di Cristina Taliento





(Jeune fille se coiffant ses cheveux, Pierre-Auguste Renoir, 1894-Lehman Collection, New York )



Quella domenica mattina dell'anno 1993, in via Auguste Renoir, mi accorsi di essere cambiata. Stringevo nei denti un bastoncino di liquirizia e mi arrotolavo le maniche della camicia maschile che era appartenuta a mio padre o a mio nonno, non ricordavo. Una cascata di luce inondava la poltrona di velluto ed i miei capelli castani si illuminarono di riflessi aranciati. Ogni cosa mi apparve diversa, come se all'improvviso mi avessero liberato gli occhi da una più profonda miopia. Lasciai che le mani mi cadessero abbandonate sulle ginocchia e, appoggiata la testa allo schienale, iniziai a risalire il fiume di quel cambiamento e, quando trovai la sorgente, chiusi gli occhi per la meraviglia e li riaprii soltanto per liberare alcune lacrime che erano rimaste incagliate tra le ciglia e i ricordi.



Quella mattina, in quella stanza, io non ritrovavo più il mio vecchio essere e sapevo che, anche se l'avessi cercato sotto ogni letto della casa, avrei visto Amore. Nessuno, in quei quattordici anni di vita, mi aveva mai parlato di quel sentimento tanto forte e mi piaceva immaginare che la mia fanciullezza si era smarrita nel vento dell'innamoramento. Perciò cercavo di ricordarmi di Argo, il Ragazzo Grifone, perchè volevo gettare la mia àncora nel fiume della vita in modo da ricordarmi per sempre che fu il suo amore a farmi cambiare e non gli altri, non la gente.



Argo aveva sedici anni ed era il principe dei rapaci. Non c'era poiana, falco o sparviero che non rispondesse al suo richiamo. La prima volta che lo vidi nel bosco era circondato da una moltitudine di ali battenti e lui cantava una canzone antica che io non conoscevo. Pensai subito ad un sogno poichè non mi era mai capitato di vedere nella realtà tanta perfezione, ma rimasi ferma su quella terra che tante volte mi aveva deluso e che, invece, questa volta mi incantava. Argo mi venne incontro con le braccia occuppate dai rapaci e non indietreggiai, anche se avevo paura. Nei suoi occhi vidi la Bellezza e lo smarrimento per lo stare a terra e non nei cieli.
"Un giorno volerò con loro" mi disse ed io capii che stava dicendo la verità. Pensai che se mi avesse chiesto di volare con lui, nel cielo, con un paio d'ali, io non avrei fatto domande e l'avrei seguito, ma prima che potessi annuire arrivò il Grifone, l'uccello che più nell'indole gli assomigliava. Nell'occhio del rapace vidi l'anima di Argo, ma abbassai lo sguardo perchè non potevo sopportare le emozioni che quella perfezione riusciva a scatenare. Fu come se quel pomeriggio io, in piedi, con le mani gelate nelle tasche del cappotto, avessi amato qualcuno con ogni probabilità di fallimento. E in quel momento capii che sapere il suo vero nome, quello di sua madre o del suo paese, non sarebbe servito a nulla. Niente che coinvolgesse la superficilaità del mondo apparteneva a quel legame. Del pomeriggio di sole restò un mozzicone bruciacchiato di tramonto. Il Grifone se ne andò girando lentamente il collo ed io non dissi niente. Poi lo vidi volare incontro al tramonto e nella strada del ritorno guardai il bosco con uno sguardo che, se all'andata, puntava il sentiero, dopo, si perdeva in dettagli che rifrangevano la bellezza del mondo per farne colori, suoni ed alberi.

22/09/10

Un titolo aumenterebbe le aspettative

di Cristina Taliento
Scrivi qualcosa, qualsiasi cosa.

Non c’era niente che potesse consolarmi oltre il violento battere delle mie dita sulla tastiera.
Mia sorella diceva “piantala” oppure ridendo diceva “non ti arrabbiare” quando sentiva che non erano i tasti, ma le ossa, a suonare. Tac Tac Tac. Suono della mia adolescenza. No, non è un vizio, non lo è mai stato. Questo continuo battere è il rumore della vita o di tante altre cose che chissà che bello sarebbe se sapessi spiegare. Anzi no, questo continuo battere non è proprio niente, è un rumore come un altro, come degli spari di pistola, come lo scoppio di una bottiglia di vetro, come il pianto di una prostituta. Questo continuo battere e battere, è soltanto un rumore che non è la vita, che non è niente se non l’infinito, quel fumo sotterraneo che mi brucia dentro e non so sciogliere. Prima ho scritto fosse la vita perché mi sembrava una frase d’effetto; qualcosa che attirasse terribilmente l’attenzione come per dire “La gatta sul tetto che scotta”, qualcosa del genere. La gente ama le frasi d’effetto. Conoscevo un tipo che invece le odiava, che girava gli occhi per interi secondi quando ne sentiva una. Per esempio, prima ho scritto che l’infinito è un fumo sotterraneo. Se gliel’avessi detto, mi avrebbe fermato con una mano impertinente per mormorare qualcosa come: “Non può essere. Non esiste il fumo sotterraneo. Dovresti scavare e poi metterci del fumo.” O chissà, magari mi avrebbe sorpreso rimanendo zitto. Credo si chiamasse Luigi, ma non faceva che ripetere “Chiamatemi Paolo, chiamatemi Paolo…” : chiamatemi Pollo, ecco. Lui veniva alle elementari con me, ma i suoi erano sempre un po’ stizziti per il fatto che non fosse stato mandato alle superiori con 4 o 5 anni d’anticipo. Il povero Pollo, dava una spiegazione a tutto e si puliva gli occhiali con gesti arrabbiati ogni volta che, una spiegazione, non riusciva a darla. Io gli dicevo che era proprio tipo da Università e che mio cugino di vent’anni capiva sicuro meno di lui. Mi piaceva un sacco vedere il povero Pollo che si gonfiava il petto. Forse pensavo che avrebbe fatto un bel chiricchicchì davanti a tutte le maestre ed i genitori. Adesso non so che fine abbia potuto fare il giovane Po. I suoi sedici anni non gli avranno impedito di crescersi un bel paio di baffi. Oppure è rimasto schiacciato dalle sue domande, o meglio, dalle inconcludenti risposte di cui noi uomini disponiamo.
“Rimani un Pollo, un po-po-povero piccolo Po-po-pollo- gli potrei canticchiare ora, con tutta la rabbia infantile che mi sento addosso- “quanta pena mi fai. Op op op, piccoletto, perché piangi? Ti sei accorto che i tuoi non so stanno superando i loro perché?

14/09/10

C'erano adolescenti sotto gli alberi

di Cristina Taliento

a dei ragazzi.



C’erano adolescenti che vedevano le loro braccia diventare più lunghe
E le usavano per scavare tane nei cespugli.
C’erano adolescenti che restavano immobili sulla strada,
con le mani in tasca
con le sciarpe nere e gli occhi bagnati
e volevano sapere, ma non chiedevano.
C’erano adolescenti che gridavano sotto la pioggia e gridavano, gridavano…
E poi tornavano all’ora di cena con le ginocchia bagnate
E mangiavano, mangiavano… senza rispondere al padre.
C’erano adolescenti che prendevano a calci le foglie;
che guardavano le immagini dello schermo senza capire;
che fumavano pezzi di cielo
che lanciavano i mozziconi dal finestrino,
e li raggiungevano saltando dal treno in corsa.
C’erano adolescenti che riuscivano a sopportare l’infinito
E lo accarezzavano con le loro mani impacciate.
C’erano adolescenti che inseguivano l’Amore e l’Ideale
Anche se questi due impostori sfuggivano come ragni sotto i divani.
C’erano adolescenti nelle scuole che guardavano fuori dalla finestra
Che piangevano nei bagni
Che guardavano assenti la cravatta a righe del professore.
E si stancavano di alzare la mano per parlare;
E non parlavano, non parlavano…
C’erano adolescenti negli uffici, nelle case, nei tribunali
Che erano ossessionati dalla Bellezza
E la cercavano nel mondo con l’occhio attento di un rapace,
ma se la trovavano poi si sentivano morire
perché il loro animo era ancora sensibile ed emozionato.
C’erano adolescenti sui tetti la sera
Che volevano diventare gabbiani della notte
Che ululavano alla luna selvaggia
E si contorcevano alla sua pallida luce famelica.

13/09/10

"Gente che non viene" *

di Cristina Taliento


Certa gente, quando si va a presentare, stende il braccio e lascia la mano cadente oppure ne da solo mezza, con le dita chiuse a pala. Tutti sanno che questa gente non viene, quello che non sanno e che a loro, piace così.
La gente che non viene si ingozza al ristorante e, dopo aver finito tutto, chiama il cameriere per lamentarsi della sua insalatina troppo salata.
La gente che non viene fa passare per immensa concessione anche solo una chiamata dal suo cellulare, "ma per favore riattacca subito. Non sia mai che il mio credito diminuisca di 5o centesimi...".
La gente che non viene se compra una maglietta non la usa per evitare di rovinarla e se, malauguratamente, si vede calpestata una scarpa, questa gente, potrebbe offendersi e non venire mai, mai, più. Quindi non calpestate le loro dannate scarpe.
La gente che non viene odia ogni forma di diversità, ogni maledetto particolare che potrebbe minare al tranquillo vivere della loro società immaginaria dove non sono ammessi zingari, neri, omosessuali o "strani tipi oscuri", ovvero gli eccentrici.
La gente che non viene ha l'alta presunzione di sapere esattamente come ragioni. Questa gente crede di leggerti nella mente, di prevenire le tue mosse e, quando magari commetti uno sbaglio, ti salta sopra come un avvoltoio e preferisce dedicare ore di pettegolezzo sui tuoi sbagli, piuttosto di concentrarsi per rimediare ai suoi.
La gente che non viene tende a guardare tutti con diffidenza: "Oddio no! Non mi dirai che vuoi fidarti di quel lavapiatti, sciocchina". Questa gente, ahimè, non viene dalla nascita.
La gente che non viene odia gli intellettuali con i loro "discorsi catastrofisti" ed è convinta che la mafia sia stata resa popolare da film come "La Piovra" o da gente come Saviano.
Non provate a parlare delle vostre idee sul mondo a questa gente, perchè potreste rimanere stupefatti nel vedere che sarete giudicati dei perditempo che non hanno di meglio a cui pensare: "Invece di ciarlare su quei tre deficienti che vogliono salvare le balene, pensa a comprarti dei jeans nuovi... Cioè, non vedi che sono strappati sulle ginocchia?".
La gente che non viene magari non ti sopporta, ma non te lo dirà mai per due ragioni: la prima è perchè non vuole compremettere la sua tranquillità psico fisica e la seconda perchè... perchè non viene, appunto!
Questa gente mente con un sorrisetto oppure è felice quando un ladro viene condannato a morte. Loro, a volte, non sanno contenere la gioia.
* Titolo di una rubrica del programma televisivo Victor Vittoria condotto da Vittoria Cabello su La7

09/09/10

Il Mito di Apollo e Dafne

raccontato da Cristina Taliento


(Giorgio de Chirico, Ettore e Andromaca, pittura metafisica, 1973)

La notte era un ratto grigio che mordeva i polsi entrando nelle vene e risaliva il tubo di sangue fino ad arrivare al cuore. Quando il ratto arrivava al cuore, ogni cosa moriva nel suo intento d’essere e si trasformava secondo una ragione febbrile che ne mutava le forme ed i colori.
Immobile, Apollo, guardava dalla finestra i palazzi assonnati; la sua sagoma scura totalmente preda del ratto e dei suoi morsi. I ricami delle tende intagliavano la luce rossastra del lampione che tinteggiava il tavolino rotondo con le due sigarette e un orologio.
Fuori i gatti miagolavano sulle lattine schiacciate di Coca Cola mentre le falene prendevano a calci la luna e se ne andavano sulle insegne al neon del negozio di fronte. Sugli alberi infestati c’erano pipistrelli che guardavano capovolti la fine di un amore e, abituati a ribaltare quel che vedevano, pensarono di assistere all’inizio. Come uno squalo che avverte il movimento dietro di lui e famelico mostra la bocca demoniaca alla sua preda così Apollo scosso dal suo stesso sussulto si voltò di scatto e, scese le scale di marmo, andò dove il suo pensiero soltanto poteva guidarlo.

Dafne -smalto rosso e unghie corte- aspettava il treno delle 3 e 45. A pochi passi da lei c’era un uomo con una camicia strappata che cantava tip-tip-pa-ri-ra-ra e si teneva il tempo schioccando le dita. Dafne si avvicinò con il rumore irriverente delle sue scarpette di vernice e gli snocciolò qualche centesimo annerito. I topi indugiavano lungo i muri e forse aspettavano che il semaforo diventasse verde un’altra volta ancora.
Santi peccatori confessavano i loro segreti sulle pareti di un motel mentre il proprietario del bar guardava gli ubriaconi che si alzavano dai suoi sgabelli unti e mentre se ne andavano indecisi verso nuovi bicchieri, lui si gettò lo straccio sulla spalla sinistra e pensò che forse stava bene con quella vita e che, ad aver avuto un po’ di fantasia, sarebbe diventato un domatore di leoni.
E la strada correva sotto Apollo il Bell’ immortale e le luci della stazione ronzavano nel buio. Dafne non si era mai voltata dietro, ma questa volta la paura le gridò di scappare e lei rispose girando i bei capelli e le labbra mortali. Vide Apollo e si vide riflessa nei suoi occhi dove bruciavano insieme amore e frenesia. E lì, tra le fiamme di quel riflesso, si sentì prigioniera per sempre di un sentimento che il ratto della notte aveva trasformato in brama smodata. Dafne, allora, salì sul treno e si nascose tra i sedili vuoti, con il capo chino. Apollo fece in tempo a salire e il treno si mosse, poi partì veloce. E nelle luci al neon Dafne piangeva in silenzio e nella sua mente rimbalzavano piccoli cristalli di pensiero che le ricordavano tutte le altre notti in cui lei aveva amato senza amore. Si accorse che mai nella sua vita aveva dato il suo cuore a qualcuno, eppure, un cuore, sentiva di non averlo più comunque e si rispose che forse si era sgretolato a sua insaputa oppure era scomparso come uno scoglio che era diventato sabbia senza che nessun pescatore si fosse poi ricordato che pur lì c’era stato uno scoglio e non soltanto il mare.
Quando Apollo arrivò, sentì il suo odore, ma quel che vide di lei fu una farfalla rossa che si lanciava nel buio dal finestrino aperto del treno in corsa.

01/09/10

Il Dattilografo

di Cristina Taliento




Gennaio, 1963. Ricordo ogni angolo, vicolo e strada di Freno. Ogni sbattimento di ciglia dei passanti, ogni indice puntato nei miei occhi azzurri, ogni filo di cotone attorcigliato dal vento. Ricordo le lunghe sciarpe nere dei ragazzi che si sporgevano sul ponte e poi ricordo quella mano ossuta che mi tirò il maglione da dietro, come per fermarmi da quella nostalgica passeggiata di inizio Novembre. Era la mano del Dattilografo, ma allora non la conoscevo. Mi sembrò vecchio fin dal primo momento, notavo la stanchezza nei suoi pesanti occhi grigi, manifesti di un’ insana voglia di rimanere estraneo alla vita.
“Scappa- mi disse- scappa dal cancro della scrittura. Scappa.”
E ricordo che il mio sorriso era esteso solo d’un lato e gli diedi il braccio perché era zoppo e non aveva il bastone. Non chiesi come, nessun perché e neanche un quando. Mi raccontò la sua storia per motivare la sua preghiera. Io ascoltavo meravigliata e spaventata, ma spaventata non troppo perché già avevo capito quanto comico fosse aver paura delle sfide che si trovano per la strada.

Scappa, figlia mia. Sei giovane, sei giovane… Non ti perdere dietro le parole. Non buttarti via.”
E forse ho guardato in basso oppure verso il fiume, ma quel che ho detto è stato di sicuro:
“Non è vero”. Un sussurro con il quale mi consolavo e mi rispondevo.

Mentre ascoltavo la storia del dattilografo mi saliva un prurito sul cuore come una specie di coinvolgimento e non era tanto perché egli fosse pratico della macchina da scrivere dall’età di sette anni, né che la sapesse adoperare con una velocità straordinaria, ma la ragione del mio stupore in quella storia stava nel potere furibondo che le parole avevano su quelle mani ossute che non smettevo di guardare.

“La scrittura mi rapì” ripeteva sempre queste quattro parole con rassegnazione, debolezza.

Mi disse che in ogni giornata della sua esistenza, in ogni ora, senza limiti di sole o pioggia, lui era rintanato nella sua camera a battere i suoi polpastrelli sulla macchina da scrivere. E già dai tempi dell’adolescenza egli capì che non poteva opporsi al potere delle parole. Così, se aveva una conversazione, doveva andarla a scrivere immediatamente e se le avide fauci della sua mente catturavano una percezione, non c’era ostacolo che potesse impedirgli di inchiodare ogni cosa sui tasti consumati di quella macchina infernale.

“E a cosa serve l’amore ad un povero dattilografo se non a comprendere quello dei suoi personaggi? Lui è schiavo. La sua vita non conta.” disse il dattilografo mentre mi lasciava.

Io lo guardavo allontanarsi e mi chiedevo se il suo lamento fosse giusto o sbagliato.

Mi dicevo che quell’uomo non si era sposato per scrivere, non aveva avuto il tempo per prendere il mare. Mi dicevo che la scrittura si era rubata la vita di quell’uomo. E se, invece, la sua vita fosse stata riempita dalle parole scritte, da quei miscugli irreali d’infinito?

Ed io tuttavia credevo che il Dattilografo fosse un audace vestito da servo, un uomo diviso a metà che fingeva di opporsi alla scrittura per assecondarla completamente.