31/05/11

Holden 357

di Cristina Taliento

Quella sera stanai Holden Caulfield dalla tana buia in cui si era dileguato.
"Esci, per favore" mormorai con determinazione.
Fece finta di non sentire.
"Esci, dai. Non fare lo scorbutico"
"Ma che vuoi, eh?" mi chiese uscendo dal libro facendo leva sulle braccia.
"Niente, mettiti la camicia, non te ne dispiacere"
Caulfield sbadigliò e mentre si sistemava le bretelle:
"Ti sei divertita a prestarmi a quel tuo amico?"
"Ho prestato il tuo libro perchè me l'aveva chiesto e poi tu sei arte, sei di tutti" scoppiai in una risata convulsa.
Serio, si accese una sigaretta.
"Spegnila, per favore oppure le pagine prenderanno fuoco ed io morirò" ordinai tra la tosse e le risa.
Fece finta di non sentire.
"Regala un segnalibro a quel tuo amico idiota perchè quel suo gesto di piegare gli angoli della carta mi lasciava secco. Accidenti! Un minimo di rispetto verso l'autore!"
"Okay, Holden Caulfield te lo prometto. Scusa, non ti presto più."
Annuì mentre si sedeva sulla copertina alzandosi i pantaloni grigi dalle ginocchia e lasciando scoperti due calzini diversi.
"Quindi che vuoi?" esclamò con una certa fretta.
"Una brutta notizia che riguarda i miei sentimenti verso di te"
"Non mi ami più?" provò ad indovinare con una smorfia teatrale.
"Esattamente" risposi seria.
Inarcò il sopracciglio e spense la sigaretta contro la copertina di cuoio sulla quale sedeva.
"Non eri una delle mie ammiratrici preferite, comunque" disse mentre intrecciava le mani con i gomiti sulle ginocchia.
"Sei diventato di colpo incomprensibile, come se io fossi cresciuta"
"E hai iniziato a leggere tutte quelle baggianate alla David Copperfield per poi renderti conto che erano meglio di me"
Rimasi in silenzio.
"Me l'aspettavo da te. Non è una sorpresa. Promettevi anzianità già dai dodici anni. Triste"
"Qualcuno ha detto che tu sei il protagonista di un manualetto per quattordicenni... Sai, io ho diciasette anni adesso..."
"Va' al diavolo!"
"Non mi piaci più. Non mi piaci più. Non mi piaci più". Mi misi a ripetere per farlo stare zitto.
"Sei vecchia. Sei vecchia. Sei vecchia." Mi fece eco battendo le scarpe per tenere il ritmo.
"Basta così. Holden Caulfield, grazie di tutto, adesso devo chiederti di andartene"
"Con grande piacere, piccola lettrice da quattro soldi."
"Ti odio con tutto il cuore"
"Vai a sfogare la tua rabbia altrove e smettila di scrivere dialoghi così scontati e banali proprio come questi ultimi due aggettivi che hai appena usato: scontati e banali"
"E cosa vuoi che mi metta a scrivere? Vuoi che mi metta a battere l'Inno d'Italia?"
"Non sai scrivere, niente. C'è gente che scrive di gran lunga meglio di te, ma di certo non va a sbandierarlo in blog e compagnia bella"
"Senti bello, io non scrivo per essere letta. Altrimenti sarei già morta di crepacuore"
"Fai bene a non sperarci, allora."
"Okay, ho sonno."
"Io di più"
"A Dio"
"Scusa per oggi Holdino caro, ciao."
"Hai dimostrato tutta la tua immaturità"
"Tanto non lo pubblico, figurarsi se lo faccio"
"Bene, non fare leggere questo dialogo a nessuno."
"Bene, ciao"

29/05/11

Jolene, scritti

di Cristina Taliento

liberamente tratto da una canzone degli White Stripes



(Ragazza con l'orecchino di perla, Johannes Veermer, 1665-66, Mauritshuis dell'Aja)


Jolene, Jolene, Jolene, Jolene

I'm begging of you, please don't take my man...


cantava piano sotto la pioggia e le macchine che passavano credevano tutte in un solo coro che fosse pazza, ma in quella pioggia di maggio chi non era pazzo fino in fondo adesso giocava a dadi con degli scheletri nei pub e lei ripeteva sempre che non voleva uccidere nessuno; le sua labbra giuravano che non c'erano cattive intenzioni nel suo cuore d'avorio. Ed io ero solo la testimone distante di una tragedia d'amore che potevo guardare in piedi in un teatro di legno, mi pareva Il Globe, e mi immaginavo che da qualche parte William Shakespeare, curvo sui fogli anneriti dal fumo delle candele, stesse riscrivendo con frenetico sospetto le battute che non suonavano ancora come flauti sotto i salici e narravano di lui che era stato rapito da una fata e lei che piangeva come grandine ed era come un stella che stava per spegnersi come un mozzicone di sigaretta. Perchè anche le stelle nella loro grandezza si spengono ed è come se non fossero mai esistite. "Nessuno in fondo è così indispensabile" diceva lei mentre piangevano affamati d'aria e la pioggia continuava a battere sul parabrezza e se lei si fosse alzata per scappare lui non l'avrebbe rincorsa, prigioniero per sempre di una staticità che non ruba che il pensiero convulso di una lotta interiore, di una zona franca che accontenta la mancanza di coraggio. Ti prego, Jolene non portartelo via continuava a ripetere in un singhiozzo rotto. Ed io mi intrecciavo le mani non sapendo cosa fare per calmare quei lamenti che non potevo capire, nè avevo mai sentito. Era la forza dell'amore, mi suggerivano le canzoni di Modugno, i film come Titanic, i libri rimasti aperti dove la tragedia era più evidente, ma quale intensità avesse questa forza, quale dolore, quale gioia perfida, io non potevo saperlo. Era come trovarsi a mezz'aria, sospesi dentro un vortice d'aria e sentirsi colpire il viso da un vento che non era il mio, nè di nessun'altro, soltanto loro e mai più loro. Lo vedevo fumare e guardare gli anelli di fumo come se stesse aspettando un messaggio, ma non c'erano frasi di poeti, aforismi di clown e letterati eccetto un nome come una melodia notturna. Ma lui era già sposo di una donna che non aveva quel nome nel fumo ed io ero solo colpita dal rumoroso battito dei loro cuori e facevo tacere le mie preghiere che lui tornasse da lei per sempre perchè quando mai per sempre era esistito? E non si potevano arginare i fiumi quando erano già in piena, così come non era giusto tamponare quegli occhi gonfi di lacrime e non c'erano nè criminali, nè vittime assolte. Jolene era ferma nella sua Bellezza adimensionale, muta tra i palazzi che crollavano al suo passaggio, fingendo di non vedere e non sentire gli effetti che provocava, assolutamente persa nel brillio della sua magnificenza.

14/05/11

The Whale o La Balena

di Cristina Taliento





( Profeta Giona, Michelangelo, Cappella Sistina)



C'era il mio paese tutto allagato. Le strade, i vicoli, le piazze erano i nuovi letti di un fiume che non avevo mai visto. L'acqua arrivava fino ai secondi piani dei palazzi e sopra i balconi più alti c'erano tante persone che si sporgevano sventolando la mano o un tricolore. Il sole del pomeriggio illuminava di striscio questo fiume sconosciuto e faceva scintillare i riflessi bagnati dei cani che si lasciavano trasportare dai pezzi di legno, abbandonati e neanche salvi sotto quel cielo che però era sereno, ricordo, era sereno e non ancora buio. Da lontano riuscivo a vedere un transatlantico, un colosseo di ferro che si muoveva lento tra gli isolati del centro e tutt'intorno vedevo famiglie intere che mangiavano le mele sopra scialuppe grandi quanto una mano. Ed io stavo sopra una gigantesca balena che portava una specie di collare lunghissimo fatto di catene con una targhetta di ferro su cui leggevo il numero 356, non mi sbaglio sicuro. Guardavo davanti senza l'idea di lasciare il collare e non riuscivo a capire se stessi guidando io quella specie di Moby Dick grigietta oppure se lei mi stesse portando chissà dove in quello che, però, era il mio paese, la mia casa. Giravo la testa e vedevo dietro la coda di questo animale che entrava nell'acqua e poi, quando usciva, mi prendeva un grande spavento perché quella grandissima pinna io non la potevo contenere tutt'intera nemmeno in uno sguardo. Mentre questa balena andava con me sopra, un signore alto con gli occhiali recitava ad alta voce: " ora il Signore aveva preparato un pesce grande per ingoiare Giona. E Giona rimase nella pancia del pesce per tre giorni e tre notti". Ma io non ero Giona, non ero il capitano Achab, io non ero nessuno. Guardavo soltanto quella coda grande, i balconi pieni di bambini e quel fiume che aveva preso il posto dell'asfalto senza nessun consenso.

04/05/11

La metamorfosi idiota

di Cristina Taliento





(Ragazzo morso da un ramarro, Caravaggio, 1594, oil on canvas)

Seppi che era stata morsa da un granchio e capii perchè si vergognava. Nel paese era tutt'al più il morso della tarantola che scatenava stupore; i morsi dei granchi non se li filavano nemmeno i vecchi brontoloni. "Un granchio?" chiesi, seria. "Un granchio" mi disse e poi non la vidi per qualche giorno.
Aveva smesso di parlare e di ascoltare musica. Se ne stava seduta ai piedi del letto con i capelli imbrogliati, incespicati, tra le mani con un dolore disumano tra la caviglia e il tallone. La vedevo guardare sempre in basso con gli occhi pieni di rabbia e le mani strette in un pugno quasi a voler spezzare il naso di qualcheduno. La mia coscienza mi squillò nell'orecchio: "Questa è la mia metamorfosi. Non te ne devi fregare niente di niente". In nomine patris et filiis et spiritus sancti.
"Senti un attimo" chiedevo di fretta.
"Parla, amor mio" esclamava maestosa la mia coscienza.
"Dimmi cosa mi sta succedendo, te ne prego" imploravo comprendomi gli occhi.
"Ti stai per trasformare in un stracconilento mollusco aereo privo di branchie sudicio-facciali"
"Non è possibile, per Bacco, io sono un essere umano certificato perchè, vedi, io ho proprio delle caratteristiche genetiche che fanno di me ciò che sono. Giuro su Di.. "
"Non si giura su Dio"
"E va bene... giuro su Giordano Bruno e Dante Alighieri che sono un essere umano certificato e immutabile, ripeto: certificato dai medici dell'ospedale. Se vuoi ti faccio leggere lo scontrino."
"Certificato e defenestrato... per farla breve, tu sarai presto un altro aggeggio".
" Oh Signore! Ma io mi oppongo! Tutto questo è immorale, che rabbia"
"Questa è la mia metamorfosi e tu, corpo, devi tacere e assecondare"
"Ferma, coscienza! Dove vai?"
"Mi vado a prepare l'ingegno fischettando".
Garibaldi fu ferito,
fu ferito ad una gamba,
Garibaldi che comanda,
che comanda il battaglion.
Pon pon. Pò, pòòòò.

Successivamente i dolori aumentarono e questa volta, dalla caviglia, presero tutto il corpo, anche le dita.
"Moriro?" chiedeva in preda alle convulsioni.
"Non morirai" sussurrava la coscienza.
"Io mo' ti ammazzo, mo' mo' !" gridava.
"Vieni, ti devo indottrinare: mo' deriva da mox, latino e significa adesso. I Romani, che popolo. Oh... i Romani"
Dalle mani spuntarono delle spine. "Che animale è mai codesto?" pensava, atterrita.
Lo stomaco parve lacerarsi, allungarsi per fare uscire una cupola gelatinosa medusoide e i capelli iniziarono a prendere vita, assumendo le forme di tentacoli o di serpi. I denti si allungarono come quelli di una lepre di bosco e dalle mani uscirono tre artigli appuntiti.
"Sei stata morsa da un granchio, cretina!" se la rideva la mia coscienza "cosa ti aspettavi, di diventare Supermèèèèn?".
Ma non rispondevo. Era da stupidi rispondere.


01/05/11

Realismo isterico

di Cristina Taliento






(E.L. Kirchner, Strada a Berlino, 1914)







Guardava nel vuoto di una grande città attraverso i fumi e i cancri che uscivano dalle finestre grigie degli edifici nascosti dietro altri edifici sbarrati da impalcature e reti e cartelli gialli. I raggi di un sole artificiale scintillavano sulle scritte enormi che gridavano al mondo la loro esistenza e l'uomo camminava dritto con la valigetta nella mano come l'altro uomo avanti a lui, come gli altri dieci uomini dietro le sue spalle dritte, come i quattro milioni dai volti scuri che ogni mattina scendevano le scale della metropolitana e alla sera tornavano tra le luci nevrotiche dei loro pensieri. Premeva il tasto dell'ascensore non riuscendosi più a liberare dalla moltitudine di motivetti pubblicitari che avevano infestato la sua testa e, stanco sebbene appena sveglio, decideva che il tentativo di opporsi a quella nebbia non aveva motivo di essere perché quello era il suo Primo Mondo meritato e la valigetta che stringeva ne era la prova. Si sedeva alla scrivania in perfetto orario e sullo schermo del computer dei tubi virtuali dai colori acidi riempivano lo spazio chiuso velocemente come ragnatele. L'uomo toccò il mouse uguale a quello di tutti gli altri dipendenti dislocati a dozzine sui piani del grattacielo. I tubi virtuali scomparvero e lui riprese quel lavoro meccanico che forse non aveva mai interrotto il giorno prima continuando a rimurginarci seppure inconsciamente durante la cena, la notte, la colazione.





Si svegliò. Si alzò.





Gli occhi vuoti, la camicia stirata, gli occhiali sul naso, eccolo scendere confuso le scale, uscire dal gigante di cemento, andare alla stazione, fare il biglietto, sedersi, controllare la fermata, guardare nervoso dal finestrino, grattarsi lo zigomo, sistemarsi gli occhiali, battere la mano sul ginocchio, controllare l'ora, accertarsi della fermata per la seconda volta, sedersi ancora, grattarsi il dorso della mano senza provare prurito, incrociare le braccia, consegnare il biglietto, ringraziare, chiedere per la fermata, aspettare, sorridere come un tic. Sorridere come un tic. Sorridere come un tic. Tic. Tic. Tic. Tic. Trentasette ore dopo, una folla di gente lo spinse fuori dal treno. Abbandonò la cravatta sul sedile e prese a camminare sempre più lentamente in un posto immobile della sua memoria. Iniziò a cercare qualcuno che assomigliasse a lui, uno di quei tre milioni uguali a lui. Non lo trovò. Per qualche minuto credette di essere morto e udì per l'ultima volta il suono squillante delle pubblicità televisive. Poi strisciò sui gomiti fino ad arrivare alla spiaggia. Continuò a strisciare sulla sabbia gialla fino a quando non vi fu che sabbia celeste e notò che in quella sabbia celeste si poteva sprofondare. Per lui era come strisciare in litri e litri di quelle bevande celesti che quei tre milioni uguali a lui bevevano nelle palestre. Quindi decise di dare un sorso e quell'acqua salata scese nel suo stomaco, andò a disinfettare il cervello, uscì dagli occhi, s'infiltrò nei vasi sanguigni, si mescolò con la sua memoria ed egli capì che quella sabbia celeste era il mare. Iniziò a piangere.