30/07/11

La geometria del gatto

di Cristina Taliento


(Vasily Kandisky, Giallo rosso e blu, 1925, olio su tela, Musée national d'Art moderne, Paris)




Flacco Squidegno camminava con le spalle curve, gli occhi sul marciapiede, come se qualcuno, uno qualsiasi, sarebbe dovuto saltar fuori all'improvviso, da lì a pochi minuti, con l'intenzione cieca di percuotere ripetutamente, senza alcuna ragione, alcuna pietà, quelle stesse spalle, quegli stessi occhi.

Sorpassò il Duomo con sospetto, bofonchiando formule matematiche al suo mozzicone di sigaretta e poi d'un tratto si fermò rapito, annientato, da un oggetto che chiunque, ogni muto passante, autista di autobus, sagrestano, avrebbe giudicato inutile alla vista; similmente, quasi del tutto scontato. L'oggetto era un gatto e lui era lui, uomo e mente. Considerava il gatto come una sorta di figura geometrica, scomponibile e ribaltabile come d'altronde poteva essere anche la sua stessa mano, il pollice, la lunetta bianca dell'unghia. Poi veniva il pensiiiero, lo studio della sagoma, il fatto che ogni poligono fosse quadrabile, la sezione aurea, le orecchie si approssimano a due triangoli rettangoli sull'angolo alfa, Euclide, ventidue millimetri per nove, ventidue, nove... stessa area. Fermati bello, non ti muovere. Un orecchio è proporzionale al muso, al canino, all'artiglio, no... un foglio. Frugò nella tasca in cerca di carta, ma vi trovò soltanto lo scheletro di una chiocciola. Rimase a guardarlo per un attimo, poi lo rimise in tasca, spense il sigaro e con quello disegnò su una mattonella del marciapiede segmenti, archi, angoli, esagoni, triangoli retti dove le ipotenuse erano diametri, pi greco sesti eccetera. E se qualcuno, qualcosa, ad esempio un cane, si fosse fermato ad annusare quell'ammasso di simboli e coseni, forse vi avrebbe riconosciuto un gatto con lo sguardo fisso di un'ellisse inscritta in una circonferenza, forse si sarebbe allontanato strisciando svogliatamente la coda. Ad ogni modo, il gatto vero prese a grattarsi il collo con una zampa e Flacco Squidegno contrasse più volte la mascella. Fermo, stai fermo. Quando il lavoro fu finito, il gatto si immobilizzò e, sentendosi curiosamente osservato, miagolò. "Chi mi ha creato?" oppure: "Chi mi ha creato, miao?". Chi lo sa, forse non chiese proprio quello, ma Flacco interpretò così. Si domandò come mai, alla fine di un problema risolto, qualcuno, uno qualsiasi, gli dovesse sempre, ostinatamente, dare giù sulle spalle con quella stupida domanda. Un gatto, poi. Cosa ne sapeva un gatto. Raddrizzò la schiena, la curvò di nuovo e riprese a camminare.

27/07/11

Il vociare delle api

di Cristina Taliento




(Europe after the rain, Max Ernst, 1940, oil on canvas, 54.8 x 147.8 cm, Wadsworth Atheneum Museum, Hartford, Connecticut)



In una testa ci furono delle api. Milioni. Di più. Ebbene, in una testa ribelle furono impiantate miliardi di api che producevano il loro miele intaccando i pensieri di quella landa desolata, altrimenti detta encefalo. No, io chiedo scusa: non era questo il modo per iniziare a descrivere le api. Dunque, le api, il loro vociare nella testa. Cielo, io non voglio annoiare nessuno; questo lessico è, come dire, fuorviante. Il problema è che... nessun problema, coraggio. Se ti senti bene si riparte. Cenno con il capo, tutto apposto. Luci.

Le api: creature nascoste tra le sinapsi, genietti dispettosi che sostituiscono coi loro sussurri la voce narrante dello scrittore. No, no, così non funziona. "Genietti dispettosi"? Non ci posso credere che l'hai scritto. Oh Dio, Gesù... Vuoi un bicchiere d'acqua? Si, grazie. Ecco, bevi. Ce ne sarebbe, per caso, un altro? Ehi, tu, prendi un altro bicchiere d'acqua per questa deficiente... si, oggi è fuori, ma non vedi che occhiaie profonde, non si può lavorare in queste condizioni. Ehm, laggiù, sono pronta. Bene, si riparte. Tre, due, uno VIA.

All'inizio mi chiedevo costantemente chi fosse la causa di quel continuo vociare. Camminavo per le strade e nella mia testa era come se qualcuno o qualcosa mi stesse descrivendo insieme alle case che sorpassavo, all'asfalto che calpestavo, i rumori che mi entravano nelle orecchie. Quella voce narrante continuava a ronzare ed invano cercavo di farla stare zitta. Mi sembrava di leggere un libro controvoglia per il gusto di finirlo e per non dire di averlo abbandonato. Così, se attraversavo la strada la voce narrante bisbigliava: "Ella si fermò e con lo sguardo assonnato decise che non passavano macchine e dunque- mani in tasca, spalle curve- strisciò i piedi fino al marciapiede di fronte". Tacete, infime mosche. Patetici insetti, volate via. Le voci narranti continuavano ed io pensai più volte di attraversare la strada senza nè fermarmi nè controllare: tutt'al più, girarsi all'improvviso e finire muso a muso con un camion. Ma non mi andava, per dirla tutta, di passare per quella che sta a terra piena di sangue, chissà in quale posizione, mentre i passanti si spintonano per guardare. Quindi, sospirai. Un gran sospiro: pfff. Due volte: pfffff, pffff. E finii con il chiamare quelle voci con il nome comune di api, poichè quando ero piccola mi avevano punto e in quel triste ricordo... si accendeva l'offesa. "Ella decise di rendere amico ciò che le era ostile: pensò di chiamarCi api". Il vociare continuava ed io iniziavo a considerare l'idea dell'annegamento in mare, ma-mi dicevo- l'acqua sarebbe stata sicuramente fredda. Tuttavia cercai di consolarmi ripetendomi che cercare di trasportare delle simili api in testa si sarebbe potuto rivelare un ottimo esercizio per diventare, un giorno, una brava scrittrice. Prendi esempio dalle api. Allora non persi tempo ad applicarmi davanti un foglio di carta. Impugnai la penna e presi la mira come per colpire una grande frase d'inizio. Aspettai che le api mi dettassero qualche loro uscita grandiosa. Aspettai. Aspettai. Curiosamente mi accorsi che il vociare era cessato. Quel foglio bianco mi fissava, io lo imitavo. Nell'aria un silenzio bianco da far paura.

24/07/11

Di quando sparai H. Caulfield

di Cristina Taliento


Durante uno dei pomeriggi della mia lunga Convalescenza trascorsi a sentire la tramontana sulla lingua, Holden Caulfield venne a chiedermi che fine avessi fatto. Trascinò una sedia accanto alla mia e lì si sedette al contrario appoggiando i gomiti sullo schienale.

"Non vieni più in biblioteca, non è vero? L'ho sentito dire ad alcuni personaggi dei russi"

"I russi..." sospirai guardando avanti, oltre la veranda.

"Sbruffoni dei russi! Tolstoj, Checov... che razza di scrittori, dico io. Salinger li ha battuti tutti, accidenti. Li ha battuti tutti, sul nome di mia madre- frugò nella tasca della giacca e prese un pacco di fiammiferi con una sigaretta-ah, e quindi perchè non vieni più, che ti è successo?"

"Non posso leggere adesso. Non è previsto nella Cura. Anzi, tutt'al più me l'hanno, vietat... ehi, ma per una volta, puoi non fumarmi in faccia, che diavolo?" gracchiai tossendo ad occhi chiusi.

"Scusami tanto- disse mentre tirava un'altra boccata di fumo- e di che si tratta? Voglio dire, che roba è questa Cura?". Intrecciai le mani sulla pancia:"Una faccenda piuttosto seria, non c'è che dire". Alzò le sopracciglia e piegò i lati della bocca verso il basso in una smorfia teatrale.

"Lo scopo è portare l'individuo alla realtà, dopo che la fantasia gli ha corrotto il cervello, così ha detto il medico". Conclusi e mi strofinai il naso. Holden Caulfield rimase a fissarmi accigliato mentre io aprivo e chiudevo i palmi delle mani come per ammirarli disinvolta.

"E cosa fanno?-esclamò- Te lo dico io cosa fanno! Ti agganciano delle corde alle caviglie e ti tengono attaccata al suolo come uno di quegli stupidi palloncini di elio e tu la smetti di volare e finisci per abbandonarti verso il suolo. Scommetto che non potrei nemmeno venire a farti visita" esclamò con un tono schifato.

"Infatti non potresti- dissi ed aggiunsi- vedi, tu, Holden, non esisti, sei soltanto un prodotto dell'immaginazione di uno scrittore morto e sepolto due anni fa. Io esisto, ma tu, senza offesa, no".

"E questo chi te l'ha messo in testa, vigliacca. Mi compiaccio per il fatto di non esistere. Mi compiaccio per l'essere diverso da te, femminuccia rompiscatole". Lo interruppi con aria meravigliata: "Dio, Gesù... quanto sei infantile, Holden. La fantasia non esiste e se pur in qualche modo compare, è giusto che si curi. Cosa credi di affermare con questo atteggiamento?". Lui si infilò il cappello da cacciatore e si girò la visiera dietro la nuca. Si era arrabbiato. Poi alzò la testa.

"Vergognati-disse-parli come tutti gli adulti più schifi di questo mondo. Parli come il vecchio Spencer".

"Vivaddio, woooh! L'hai detto, finalmente! Bravo, sto invecchiando. Ho già diciotto anni e assomiglio a tutti quelli che vai criticando dal 1951. Stupido idiota."

"Ho detto per il modo di parlare, non permetterti a cambiarmi le dannate parole". Si accese una sigaretta con il fiammifero e rimanemmo in silenzio mentre due gabbiani volavano vicini nel cielo.

Ad un tratto si alzò gettando a terra la sedia e mi guardò con disprezzo. "La verità è che non hai la forza di prendere per la corna questa tua grande fantasia perchè hai paura di rimanerci secca, di rimanere al buio. E allora chiami Convalescenze le grandi evasioni, chiami Cure le più grandi ritrattazioni verso te stessa. Il fatto è che non sai come uscire dalla mediocrità- disse guardandomi mentre avevo smesso di respirare e stringevo i pugni- non sai come fare a liberarti da questo stato dove sei a metà tra la mancanza di talento e la genialità. Sei al di sotto, cara, e questo ti da alla testa e ti fa piagnucolare. Allora preferiresti mandare all'aria il pensiero, l'analisi del sentimento e la scrittura pur di non confrontarti più con i tuoi limiti. Non è così?" mi chiese. Vedevo il suo sorriso invaso di luce e la sua testa spettinata che copriva il sole. Mi venne all'improvviso la voglia di colpirlo. Mi vidi mentre mi alzavo piano con il controllo di un vecchio e mentre lui rilassava le spalle io, bang, un grosso pugno nella pancia. Mi vedevo afferrarlo per il collo della camicia e lui con un rivolo di sangue al lato della bocca mi guardava con aria di sfida ed io, bang, un altro gigantesco pugno sul naso. Poi mentre me ne andavo ecco che lui mi assaliva alle spalle con una snocchettata sulla nuca. Io mi giravo lentamente e afferravo la pistola che tenevo nei jeans e la puntavo con le braccia tese sul suo cuore fantasma. Lui supplicava e implorava ed io:" Chiedi scusa, chiedi scusa!". Supplicava ed implorava, ma niente scuse. Allora lo sparavo.

"Che c'è?- fece Holden Caulfield mentre io lo immaginavo morto- Te ne vai già per pensieri e sentieri fantastici? La mia predichella ha colpito il segno, vedo" ripetè mentre se ne andava con la giacca sulle spalle ed io mi massaggiavo le caviglie dove, evidenti, spuntavano i segni delle corde il cui scopo era quello di riportarmi alla ragione, sulla terra degli stolti.

21/07/11

L'adolescente arrogante - Parte seconda

di Cristina Taliento


(Jean-Baptiste Greuze, Un écolier endormi sur son livre, 1755, oil on canvas, 65 X 64)



Talvolta la si vedeva piangere, seduta sull'erba bruciata delle campagne estive, incespicando le dita tra gli sterpi e la terra brulla. Poi con gli occhi appesi all'orizzonte contava le rondini in cielo e si pentiva malamente con i movimenti convulsi di un insetto preso, intrappolato e schiacciato tra i polpastrelli d'un bambino. Abbandonava il suo violento isolamento tutte quelle volte in cui si accorgeva di aver mozzicato ogni genere di colpa, quando il Dio che per lungo tempo aveva cercato si ricordava d'incendiare il cielo; e, quelle lacrime rabbiose, lente sulla guancia, illuminate e assolte dai raggi del tramonto, non venivano da lei scusate, quasi mai considerate come un fatto di redenzione; tutt'al più erano come schegge appuntite nelle quali lei cercava la causa del suo dolore immotivato, quasi infantile e sciocco, delle delusioni alle sue aspettative, di quel curioso odio verso un universo schivo percepito da lei come una placenta da squarciare con le unghie fino a far uscire la testa e respirare forte, respirare avidi e s'immaginava di gridare, in quel vuoto infinito, ingiurie ai viventi, agli idoli, alla filosofia bugiarda. Si alzava da terra bruscamente e prendeva la strada che portava a casa, imbrigliando lo sguardo tra i fili della luce, tra le antenne sui terrazzi. Mangiava senza parlare, senza rispondere alla madre che aveva smesso di chiedere e alla sera ritornava a trincerarsi dietro i suoi libri, afferrandoli con le mani impacciate e sporche di terra. Criticava gli autori più grandi: Proust, Dostoevskij, Flaubert, Pasternak. Sottolineava alcune frasi e sul margine le riscriveva come lei credeva che suonassero meglio e quelle correzioni in inchiostro nero parevano come merli morti su isole di ghiaccio. Ma quando andava a rileggere quello che aveva scritto, si accusava di mediocrità, di conformismo e giurava che mai ancora avrebbe osservato o riflettuto o, soprattutto, scritto. Più di altri, lei fuggiva la noia. Era il più alto tradimento che ci fosse nell'animo, la figlia bastarda del cuore umano; si annoiava quando le ombre altrui danzavano scomposte attorno ai fuochi di quel che chiamavano divertimento. Finiva moribonda su di un letto a studiare le trame minuscole della coperta oppure la ritrovavano giorni dopo con occhiaie profonde e foglie tra i capelli lunghi. Raccontava di essere stata nei boschi del Canada, tra i deserti del Sahara senza acqua e la voglia di riposare e, invero c'era stata, ma erano visioni della sua mente, strani flash di gloria. Si vedeva al patibolo con il cappio al collo, ancora viva, i vestiti antichi e il sorriso da criminale. "Toglietele la corda!- urlava d'un tratto lo sceriffo- Questa ragazza non merita l'impiccagione. Voglio vederla vivere fino al suo ultimo alito di vita, sissignore!". Poi scoppiava in una risata alcolizzata.

18/07/11

Colui che andava scalzo

di Cristina Taliento



C'era un uomo, un vecchio, che abitava la Via di un tale Bertola, giù per le strade che portavano al cimitero. All'inizio non sapevo bene come chiamarlo: Antonio Genda oppure Antonio Genta. Non capivo bene il suono mentre le vecchiette sputacchiavano il suo nome e cognome dalle dentiere. Lo vidi camminare sul lungomare senza scarpe, con i capelli pettinati indietro, le bretelle, i pantaloni scuri ed una camicia a righe celesti. Le ragazze del catechismo mi salutavano e poi si giravano per guardare i piedi nudi di Antonio Genda e si mettevano a ridere tra di loro. Le sentivo dissolversi alle mie spalle nei fruscii dei loro capelli; io restavo con gli occhi appesi alla bocca morta mentre vedevo Antonio Genda allontanarsi barcollante e vecchio e pensavo che presto sarebbe crepato, morto e sepolto a due passi da casa sua e il giorno dei morti le persone avrebbero guardato il suo epitaffio: giace qui, Antonio Genda, colui che andava scalzo. "Matto furioso" avrebbero borbottato senza fermarsi le vecchie con le dentiere. Un'auto mi sfiorò la giacca di pelle, poi il lamento di un clacson. Mi spostai dalla strada tirando su gli occhiali con la mano e seguii lo Scalzo. Era come addomesticare un gatto selvatico e starlo a guardare per ore senza muovere un muscolo; portare cibo, acqua e qualche storia da raccontare senza mai avvicinarsi o accarezzare, accettando il compromesso di rimanere immobile e invisibile per la curiosità di studiare il suo linguaggio nascosto, di far venire alla luce il suo curioso segreto. Mi fece segno di sedermi ed io obbedii confusa dai libri sugli scaffali. C'erano libri ovunque: sul tavolo, a terra, su delle mensole che circondavano gli infissi delle porte. Pile e pile di libri accatastate sulle scale, dentro cassetti aperti completamente. Mi diede una tazza di tè e la presi bruciacchiandomi i pollici. La appoggiai a terra siccome il tavolo era lontano e alzandomi avrei spaventato il gatto.


"Tè bollente! Questa è la punizione per i giovani spioni come te!"


Tossii e mi riaggiustai gli occhiali sul naso. "Qualche volta la curiosità fa dell'uomo uno spione perchè non si possono cercare le risposte più difficili rimanendo al proprio posto, senza mostrare la minina sfrontatezza. Io odio chi se ne sta al proprio posto" conclusi fingendo disinvoltura.


"Avanti, chiedi allora!-brontolò camminando per la stanza- ma non pensare nemmeno per un santissimo attimo che otterrai delle risposte ogni volta che avrai deciso di spostare il sedere dalla dannata sedia!"


"Io non lo penso, ma voglio sapere perchè lei cammina scalzo. La gente la giudica pazzo ed anch'io l'ho creduto, ma poi tutti questi libri... non lo so". Antonio Genda mi squadrò come un padre che vede l'occhio nero ad un figlio e non ha le parole per chiedere come ha fatto per procurarselo. Poi chiese:


"Come hai fatto, come fate voi giovani ad essere così superficiali e bonaccioni! I libri non escludono un bel niente. Io posso benissimo essere pazzo ed aver letto un milione di libri e averne scritti la metà. Ma che domande!". Mi mossi sulla sedia e lo lasciai continuare.


"Personalmente-disse dopo una specie di rantolo o sospiro- personalmente, questo mio gesto è la cosa più normale che abbia fatto finora. Mi tolgo le scarpe, ecco. Io nella vita ero prima di tutto un avvocato, uno dei migliori di questo paese, stimato e certificato dalla gente con la garanzia di Normale Cittadino Onesto. E' strano che venissero considerate per normalità tutte quelle finzioni a cui mi sottoponevo: postura ritta e sorriso da miglior cane vivente, ricevimenti con mia moglie, viaggi all'estero con la comitiva dei cosiddetti amici, cartoline di Natale, passeggiata domenicale e successiva visita alle prozie, trisavole, suocere, club degli scrittori, club dei donatori di sangue. Un mucchio di fandonie che non mi rappresentavano affatto ed io mi lasciavo trasportare e più venivo sballottato in quel vento e più mi dicevo: te lo stai facendo fare bella, Antò."


Vuotò la tazza del tè in un fiato e poi schioccò la lingua.


"Alla fine mia moglie è morta e ho pianto perchè non mi veniva proprio da piangere, nemmeno a strizzare gli occhi. Così ho traslocato. Oh... la pena che mi facevo. Fa un po' schifo, parliamoci chiaro, scoprire che la propria vita trascorsa è stato un continuo recitare. Recitare per essere un bravo figlio, un bravo marito, un bravo avvocato, uno di quegli uomini che non si fanno mettere i piedi in testa, il mago del prato ben curato". Si mise a ridere. "Tu adesso hai sedici anni, quanti...?"


"Quasi diciotto" risposi destandomi dalle nebbie del suo discorso. "Tu adesso hai diciotto anni e che ne sai... che ne sai. Sei venuta per sapere perchè camminassi scalzo e te l'ho detto: per protestare. Per protestare contro me stesso, contro le bugie che mi sono ripetuto per tutti questi mesi, anni. Per- si fermò come se avesse visto se stesso bambino in uno specchio- per... ritagliarmi la mia parte di normalità, di vera essenza, come diceva Charles Morgan. Sono io scalzo e voglio che gli altri mi vedano così e se mi chiamano pazzo, va bene, che lo gridino fino a perdere la voce."


"Puoi essere te stesso e non dirlo a nessuno" dissi piano.


"No, sarai te stesso quando gli altri ti vedranno senza una scrivania, senza un paio di scarpe e ti vedranno in quello che sei: pazzo, bugiardo, vecchio, ricattatore, opportunista. E nei loro sguardi ti rivedrai per quello che volevi, credi, senti di essere. Nei loro sguardi confermerai che hanno visto quello che sei davvero e giurerai a te stesso di essere esistito."


"Giurerai a te stesso di essere esistito" ripetei mentre mi dirigevo alla porta, mentre in silenzio me ne andavo da quella stanza lasciandomi Antonio Genda alle spalle, mentre camminavo con le mani sudate in tasca, mentre passavo davanti le porte della gente e prendevo la via di casa mia, mentre al tempo stesso mi dicevo "non è vero, un mare di stupidate", mentre mi guardavo le scarpe con la gomma bianca sporca di fango.

10/07/11

Il ragazzo dietro la panchina

di Cristina Taliento


(Head of a Boy, Lucien Freud, 1956, oil on canvas, Private Collection)


Alle volte diveniva di colpo serio e guardava il mare come per contenerlo nel suo secchiello e poi berlo tutto d'un fiato. Invidiava quei gabbiani che addomesticava sulle sue spalle e si muoveva con la stessa grazia delle mani di una pianista. Aveva grandi occhi gentili dietro cui si nascondevano desideri peccaminosi di conoscere le regole della natura insieme ai significati più indecenti della religione. A tratti iniziava a snocciolare i suoi pensieri sulle fronti di quegli individui che i passanti cercavano di ignorare; interlocutori che non avevano mai letto un libro, gente presa per la maglietta dalla società, ingiuriata, dichiarata moralmente ubriaca, lebbrosa e lui era curioso dell'effetto che potevano suscitare le sue frasi dentro quegli occhi vergini o su quei denti canini che smettevano lentamente di masticare tabacco e ascoltavano zitti. Parlava un italiano fatto di teneri arcaismi, nomi presi dal dialetto, quelle espressioni degli adolescenti squarciagolate sulle rive dei fiumi. Certi pomeriggi si sedeva sui gradini di pietra e scrutava i vecchi ed i loro colli rugosi e, in quel mentre, sentiva delle lacrime che si incagliavano tra le ciglia lunghe e si allontanava con la rabbia di un gatto a cui è stata calpestata la coda. Rimaneva incantato dai suoni impacciati di una chitarra giovane, dal vacillare del vino nella bottiglia di vetro, dalla campanella che il chierichetto suonava al momento della genuflessione; gli piacevano i libri di mitologia greca, gli scarabocchi dei bambini, i quadri di arte barocca, le filastrocche popolari, gli indovinelli, i romanzi dell'Ottocento, le canzoncine degli intermezzi pubblicitari, palpiti di diversa andatura. Immergeva i capelli corti nelle nebbie di sguardi discreti, riflessioni, spietati dubbi e prima di dichiararsi morto, prima che l'ultimo alito d'ossigeno si fosse spento, si ridestava e annotava quello che aveva visto o, persino, toccato. Studiava con la voracità di un'aquila madre che ha da sfamare il nido e ostentava la più vivace ignoranza alzando le spalle indifferente. Ogni azione quotidiana veniva volta da lui come un' ultima mossa estrema, ma questo era un segreto: ripudiava quegli eroi del cinema o dei best-seller, cosiddetti ridestatori di coscienze, che brulicavano sulle magliette e nelle citazioni dei profili Facebook; li riteneva uomini rimasti intrappolati dal masso della vita che tentavano la via della salvezza convincendo gli altri a fare di meglio. Noi siamo eroi che facciamo riflettere sul valore del singolo minuto, noi spingiamo gli uomini a cogliere l'attimo. No, pensava, voi siete predicatori imbroglioni, schifosi assassini da usare come cavie per gli esperimenti dei vaccini. Castigava così la sua stessa indole. Si addormentava sfuggendo il pensiero e, non potendolo evitare del tutto, apriva gli occhi nella penombra e distorceva gli oggetti con l'immaginazione: prima un drago, poi un mazzo di margherite sul comò diventava un volto diabolico. E rideva, rideva quando non piangeva l'ira. Rideva per la più volgare comicità, nel vedere un gatto morto, tutte le volte che si contraddiceva e non la smetteva fino a quando il ricordo di un futuro attraversava il suo presente. Quelli che lo circondavano credevano che fosse pazzo e lui, ridendo, diceva: "No no, io sono normale, sono come tutti voi".

07/07/11

La notte dei gatti lunari

Storie per spaventare i bambini quel tanto che basta per scrivere in silenzio altre storie


di Cristina Taliento

Gina Floow non era un gatto. Freya lo era, ma lei viene dopo. Gina rispondeva alle chiamate dello studio dentistico dottore Mauro Lauro. Dalle otto alle venti e trenta di lunedì, mercoledì e venerdì e dalle quattordici fino alle diciannove di martedì e giovedì, lei prendeva la cornetta e la soffocava nel cuscino di capelli rossi e senza neanche accorgersene blaterava: "Studio dentistico dottore Mauro Lauro, desidera?". Questa storia ebbe inizio quando Gina Floow stava strisciando le All Star verso casa con le mani buttate nelle tasche di un impermeabile di seconda mano. La luce arancione appesa nel mezzo di un filo d'acciaio illuminava le code dei topi che sfioravano i palazzi. Alcune finestre erano aperte e da una di esse sgattaiolò la voce di Marcello Mastroianni che stava dicendo: "Si, Sylvia, vengo anch'io, vengo anch'io... ma si, ha ragione lei. Sto sbagliando tutto. Stiamo sbagliando tutti". I grilli riempivano l'atmosfera con il loro continuo respirare e un gatto...eccolo! Un gatto grande come una pantera girava l'angolo come in un sogno. Gina Floow si ritrasse spaventata e poi strinse gli occhi per mettere a fuoco: non c'era più nessuno. Infilò la mano sotto la montatura pesante di occhiali Frank & Co simili a due televisori e si sfregò le palpebre stanche. Un miagolio. Si girò allarmata come un gatto. Annusò l'aria con le piccole narici e decise di spostarsi in un angolo buio di via 12° Reggimento Fanteria. Incastonò la testa tra le spalle intimorite e tra i rovi rossi dei suoi capelli. Dall'altra parte della strada qualcosa aveva mosso una bottiglia di vetro che ora aveva preso a rotolare sull'asfalto e prima ancora che Gina potesse girarsi a controllare, dieci, quindici, cinquanta teste di gatti si sporsero dai terrazzi ed insieme, in un unico coro, trascinarono un'assordante "Miiiiiiiao". Gina Floow, dal suo canto, non si scompose; rimase a guardare quelle teste di gatto che presto divennero gatti interi svelati alla luce della luna e nelle sue iridi gialle si specchiò il riflesso di file di felini che si riversavano verticalmente sui muri delle case. I gatti rossi inchiodarono i topi con i loro artigli e affondarono i baffi nella carne sudicia, il sangue grigiastro veniva sputacchiato sui muri e sull'impermeabile di seconda mano di Gina Floow. Ad un tratto le orecchie dei felini si rizzarono, i loro occhi di smeraldo appuntito guardarono un'ombra alta scivolare calda sul portone del conservatorio "Giovanni Pierluigi di Palestrina". I topi fuggirono nei tombini e nello stesso istante in cui la luna raggiungeva la sua massima estensione apparve Freya, il gatto gigante, padrone di tutte le zampe e gli artigli di questo mondo. Ogni gatto chinò la testa e Freya, con il collo sostenuto, diede ordine di montare delle scale infinite e puntarle alla luna. Nessuno si permise di fare domande, ma c'era un gattino nero tra le prime righe che con la testa chinata miagolò un flebile "perchè, regina Freya?". Allora la Gatta lo infilzò con stalagmiti di ghiaccio che fece uscire dai suoi occhi e il gattino morì dissanguato. Poi, ella ruggì: "Per vivere intensamente, sciocchi!". Ricevuto l'ordine finale, i gatti si disperdettero in cerca di legno, scardinarono le porte delle case, con i pali dei segnali stradali costruirono i pioli delle scale e le corde trovate nel porto le utilizzarono come funi per issare i collegamenti alla luna. Dopo un'ora le scale erano pronte e Freya per prima saltellò verso l'alto nel buio stellato come una scheggia nell'oceano scuro. L'impermeabile di seconda mano di Gina Floow, spalmato sul muro, guardava quello che accadeva. Quando i gatti approdarono sulla luna, Freya sotterrò la testa nelle polveri lunari, ma queste, presto, fecero starnutire tutti i gatti. Ecciù, ecciù. Ogni nuovo ecciù risuonava tetro come se fosse stato il primo. Allora Freya che voleva vivere intensamente si mise di colpo a saltare da una parte all'altra del satellite miagolando: "Mauro Lauro! Mauro Lauro! Mauro Lauro!". I gatti iniziarono a guardarsi con sospetto mentre continuavano a starnutire. Freya notò l'imbarazzo dei gatti e si ricompose, severa. Ma le polveri lunari erano già entrate nelle orecchie dei gatti e stavano causando curiose allergie: si grattavano, sanguinavano, sputavano palle di pelo lunare, lacrimavano, fumavano dalle narici. Freya capì che non poteva uccidere il suo esercito e decise di tornare sulla Terra. Come decine di operai sottopagati che tornano dalle miniere borbottando tra sé, così i gatti lunari scesero le scale da loro stessi costruite consapevoli del fallimento. "Vivere intensamente un corno!" miagolò violentemente un gatto rosso. "Vivere intensamente un fico secco!" rispose in lontananza un gatto nero. "Uccidiamola" propose un gatto grigio. "Ucciderla?" chiese onesto un gatto bianco e puro. "Ci comanda ed è solo schiava delle sue frenesie" sentenziò un gatto dotto di colore indefinito. E così i gatti azionarono gli artigli e con orrore colpirono Freya alle spalle come era accaduto miliardi di anni prima ad un vecchio umano chiamato Giulio Cesare. E mentre gli artigli affondavano nel pelo e nella pelle, l'ombra delle orecchie appuntite di Freya si arrotondò, la sagoma del corpo si slanciò e prima che Freya potesse accorgersene, gli occhiali di Gina Floow giacevano rotti sull'asfalto ed i capelli ricci erano più rossi del solito: verniciati di sangue illuminato dalla luna.