12/06/12

La metamorfosi idiota (XX)

di Cristina Taliento


(Un paio di scarpe, Vincent Van Gogh, 1886, olio su tela, Van Gogh Museum, Amsterdam)

Brillavano le strade disseminate di polveri e fieno. L'aria era fatta di sole, le parole si agganciavano ai campanelli delle case. Non erano, difatti, semplici citofoni. Si trattava più che altro di aggeggi in ferro battuto e campane ricurve dove il suono risuonava tutto. Ecco quello che realmente erano. E le parole stavano lì, in fin dei conti, attaccate, appese per le gambe di tutte le A e le E che si dicessero in giro. Qualcosa di molto numeroso. L'adolescente ripeteva il suo nome per gioco e si arrabbiava dentro silenzi di penombra dove le ombre cambiavano i connotati agli oggetti. Nascevano così i mostri. Mostri: ali di pipistrello seghettate e aculei spessi come spade su criniere e ringhiere di scale al posto dei denti, ghigni d'insetti giganteschi, occhi metallici e assassini di un segugio demoniaco. Fingeva di dormire, ma in realtà si sentiva arrabbiato e voleva mordere il cuscino, mangiarne le piume. Pensò che sarebbe diventato un'anatra. Sua madre un giorno della sua infanzia affermò: "Nel tuo cuscino c'è materiale sintetico". Allora l'adolescente bambino aveva preso ad immaginare pneumatici e ruote di bulloni al posto delle piume. Pensò che sarebbe diventato, allora, una di quelle officine nella zona industriale. Fingeva di dormire ed ogni goccia di sudore era un pensiero sinistro, spaventoso. Brillavano le stelle nel cielo senza che lui potesse vederle, ma dentro di se pensava: tramontate stelle, maledette stelle, uffa questo mondo, ma io, ma io che c'entro, uffa. Stavano parlando in quel momento nella sua testa diverse illustri voci di psicologi scoppiati, marinai con una pensione di euro otto al mese, parenti con le gambe distese e l'aria scettica. Sentite belli, abbiate la compiacenza di andare a farvi benedire quel cervellino ino-ino, questa è la mia vita e voi, dico voi, ebeti, non me la fate l'analisi, non riverserete su di me la vostra misera volontà perché io, perché io... non lo so. Si, l'adolescente aveva una vita e non si poteva negare, per molti aspetti, che egli esistesse per davvero, ma sulla ragione di tanta rabbia, imprecisione nel ragionamento e sui sogni che l'affligevano, non si sapeva nulla.
E al fantasma disse: "Vorrei prendere queste quattro parole impacciate che ho in testa e farne un'opera d'arte e non per te, nè per nessun altro, ma per la mia rabbia, affinché trovi un posto nel mio universo. Questa rabbia è forte come una tempesta perché non ha ragione. Non ho visto le guerre, non sono stato offeso, la mia camera è ancora il nido di un bambino, non so cosa sia la vendetta. Eppure stringo i pugni e nascondo la mia ira come fosse un segreto contro il mondo e vorrei vederla in faccia, distesa sul foglio, quest'assassina. Ma guardo me stesso e tremo".

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