28/03/13

Ritratto di Lisa solitaria

di Cristina Taliento

(The Farewell of Telemachus and Eucharis, Jacques-Louis David, 1818, oil on canvas, 103x87, Private Collection)


Dopo una lunga notte di dibattito interiore riguardo a chi fosse e chi non fosse, concluse, malgrado John Donne e il ponte sullo Stretto, di essere un'isola, lontana dalla terra ferma, senza punti di contatto, nè cabine telefoniche. Osservandosi da fuori, pensò, doveva sembrare proprio una persona ferita, incline a defilarsi nelle tane buie del pensiero. "Talpa! Talpa! Talpa!" si apostrofò quella domenica mattina una volta sveglia. Le sembrò, d'un tratto, curioso alzarsi una mattina con il desiderio di traslare il proprio essere negli occhi degli altri, ribaltarlo per farlo adattare al senso comune, rimpicciolirlo, tagliando i margini, giusto per vedere che effetto facesse la sua persona, in un giorno qualsiasi, su una strada qualsiasi, mentre, per dire, attraversava la strada dopo aver guardato a destra e a sinistra. "Ecco, che effetto faccio?". Nessuno. Quindi uscì e provò a dimenticarsi di sè. Camminò lungo la piazza, comprò un gelato al pistacchio, rimase a guardare un gruppetto di bambini che giocavano con i loro monopattini, poi si diresse verso la fermata dell'autobus dove c'erano altre persone che aspettavano. E nell'istante in cui arrivò sotto la pensilina, quattro o sei di quelle dozzine di occhi lì presenti, si alzarono per guardarla, distrattamente, in automatico, per puro istinto. Lei capì che, senza ogni dubbio, era stata inquadrata, come diceva spesso sua madre. Si, era stata inquadrata o, addirittura, etichettata. Sorrise al pensiero di cosa avessero pensato di lei. Ancora le vennero in mente tutti gli innumerevoli "Lisa l'imbronciata", "Lisa sorridi, non essere triste", "Lisa, chi ti ha offesa?". Ma tu Lisa, non ti senti ferita per niente, dice un uomo a fianco a lei; qualcuno appoggiato per caso al palo degli orari del bus. Lisa, tu sei solitaria perché ti piace osservare l’umanità dietro una sciarpa di lana spessa, mentre il tuo passo e la tua testa seguono il marciapiede sulle note di un pianoforte nascosto tra i cespugli. Vedi, la tua solitudine non è quella solenne dei lupi e nemmeno quella delle cime più alte che mai partecipano alle danze del sottobosco. La tua, invece, è una solitudine leggera, la stessa dei piccoli anemoni di campo che il vento accarezza. La verità, Lisa, è che sebbene tu te ne stia seduta all’ultimo banco in fondo alla sala, senza l’intenzione di parlare o di sorridere, nonostante il pugno premuto sul mento e i pochi amici, tu ami l’umanità e ami gli uomini, le loro fabbriche, il modo in cui si innamorano, sopravvivono, si ammalano. Staresti ore a guardarli mentre inventano le loro bugie quotidiane, portando gli oggetti nei loro nidi. Ti interessano le cose che dicono, quelle che non diranno mai, vorresti riuscire a capirli nella loro intimità, nella loro anatomia; ti emoziona la scena di una madre che indica al figlio la statua di un vecchio imperatore narrandogli la storia dei suoi avi, così come  la mano di un neonato o una ruga nuova su un volto familiare. L’umanità, forse non lo sai, è il tuo grande amore, il mare che ti abbraccia la vista riempiendo d’Infinito i tuoi orizzonti. Niente per te è limitato, niente si identifica in un punto fisso: in piedi sul terrazzo di un grattacielo altissimo senti la continuità del Tempo, apri la mano per fendere il presente; nei giorni di vento arrivi quasi a percepire il futuro. E con il cuore che ti batte forte, risali il fiume di un’insolita inquietudine, incontrando una sorgente in cui brilla la terrificante e magnifica potenzialità dell’essere giovani, lo scrigno sconosciuto delle scelte che prenderai, delle storie che scriverai, di tutto quello che vorrai diventare. E ridi e piangi senza controllo di fronte al biancore assoluto dell’avere tutta la vita davanti.

Ecco com'era, lei. Quell'uomo fantasma aveva ragione. In fondo lo sapeva. In fondo lei era così.


16/03/13

Il Grande Boom

di Cristina Taliento












(Number 32, Jackson Pollock, 1950, enamel)


Smise. 
Una mattina: smise. 
Perchè hai smesso? Perchè sì, non t'impicciare! Perchè sono i fattacci miei, hai capito? E tu non puoi dirmi niente, va bene? Niente! 
Smise come una nevicata, come, di colpo, la pioggia, come la cicala. E craaaa, craaaa, craaa. Basta, non ne volle sapere più. Partì! 
Ma che cosa hai smesso? Ti sei dimesso, fesso, che hai fatto? Ammettilo! 
Eh... per favore, vecchia, lasciami stare! 
Smise sotto lo sguardo del suo specchio, sotto il riflesso del suo sopracciglio.  Respirò e smise, così come aveva cominciato. E quel giorno non c'era nemmeno una nuvola in cielo. Io, poi... nemmeno io c'ero. Non c'era nessuno oltre a quella voce fuori campo. Chi lo sapeva da dove venisse. Forse era la sua coscienza o forse Omero oppure...Dio?  
"Oh- arrossì il personaggio del secondo piano- se n'è andato! Il matto Genda se n'è andato!"
"Ma come!-faceva il Fantasma tutto agitato- Che è successo?"
"Dice che ha smesso"
"Ha smesso?"
"Così dice"
"Ha smesso di fare che cosa, poi?"
"Mah! E chi lo sa? Ha smesso!".
E già l'Adolescente, quel commediante, si portava le mani alla bocca e respirava forte, impaurito, stupito, provava un senso di oppressione sullo stomaco. Livia usciva dalla stanza con una salopette rosa fucsia, i capelli biondi, un succo di frutta alla pesca in mano. 
"Il matto Genda ha tagliato la corda" fece l'Adolescente da gran pettegolo qual era. 
Livia rise appena. Disse: "Era ora. Lui qui, tra noi, non c'entrava niente".

Mi chiamarono per dirmelo. Io stavo studiando l'Evoluzione. Che cavolo c'entravo io con il matto Genda e il suo carattere schifo. 
"Andatevene. Sto studiando" dissi arrabbiata, sempre più spettinata, la matita spezzata tra i denti, la gomma da masticare ridotta a un filo appiccicoso. "Andatevene, maledette seccature!"
"Noi... veramente... è successo che..."
"Ebbasta! Non avete rispetto! Via! Via!" 
"Perdonate...si tratta del... matto Genda"
"Che vuole?"
"Niente... se n'è andato"
"Eh vabbè! Che me ne importa!"
"Il punto è proprio questo, secondo noi... Se n'è andato perchè voleva un narratore a cui, invece, importasse. Forse la vostra incostanza... mah, forse ha capito che era meglio migrare"
"Egocentrico pagliaccio! Vecchio brontolone..."
"Voleva più spazio... beh, a dire il vero, lo vogliamo tutti noi".
Li guardai. Al buio della stanza, avevano formato un gruppetto di una dozzina di personaggi. Ma che ingrati... ma che traditori... Quelli delle ultime file si alzavano sulle punte dei piedi per vedere la mia espressione. 
"Ecchè gran cazzo, proprio, dico io!" gridai, sbattendo i fogli sulla scrivania. I personaggi indietreggiarono. Il Fantasma ebbe una leggere interferenza d'immagine. Livia fece quel rumore con la cannuccia, quando il succo si è finito e non aspira più un bel niente. Flacco Squidegno, quello de La Geometria del Gatto, si tolse il sigaro dalla bocca e mi fissò pensoso.
"Non mi guardi così, signor matematico! Io ho tutto il diritto di mandare la barca a naufragare perchè questa, belli miei, è la MIA barca, il MIO mare e se voglio inseguire Moby Dick, la inseguo e se non la voglio inseguire, non la inseguo. E lo stesso vale per l'ispirazione, per l'esercizio di stile e per tutti i maledetti incipit del mondo. Vi è sufficientemente chiaro questo concetto?" continuai sullo stesso tono imitando la mia vecchia professoressa di latino. Anzi, mi alzai in piedi e inchiodai il pugno sulla scrivania. 
"Esigo inoltre che non veniate più a scassarmi la pazienza e la porta perchè, vi avviso, la prossima volta me ne vado anch'io e non avrete le vostre storie nemmeno a strisciare come serpenti. In più, vi consiglio, di chiedere asilo presso i taccuini di un altro scribacchino se ritenete che io non sia in grado di soddisfare le vostre velleità. Se vi vanagloriate di essere dei personaggi validi, brillanti e scoppiettanti, uscite da questa penna quasi scarica e infilatevi in quella di qualche bella casa editrice, con tanto di camino e gadget per i clienti. Qui, per ora, non si pensa ad altro che a Charles!"
"Bene...-abbaiò il Pastore Tedesco- e per il matto Genda?"
"Che se ne vada affanculo"
E poi uscirono uno per uno e volevo smettere di scrivere anch'io, ma smettere come si faceva... era difficile. Non si poteva. Si poteva? La mano cercava la penna e la testa, le idee. Ma le idee erano polline che ora ti sfiorava il naso, ora volava lontano. Il cuore mi batteva forte, ma più inventavo, più mi calmavo e di mettere il punto alla frase proprio non c'era verso

06/03/13

Lettere dalla guerra

di Cristina Taliento

In memoria di A.C. (1980-2003)

(Afghan girl, Steve McCurry, 1984, National Geographic Magazine)



Saigon, settembre 1974

Caro Paul,

mentre ti scrivo, mi brucia negli occhi il terrore delle carni dilaniate. Sangue ovunque, sulle palme laggiù, su di me. Uomini con museruole sguinzagliano segugi fatti di gas; ho dimenticato per chi combattiamo, ho dimenticato il colore dei nostri nemici. Vorrei prenderti la mano. Vorrei che il tuo canto calmasse le urla di questo ospedale. Una volta, hai cantato una canzone; guardavi lontano... i tuoi occhi come pianure aperte sul mare.
Il mio unico rimpianto in vita è di non averti mai fermato. Mi scoppia il cuore al pensiero di aver gettato tanto coraggio qui, a tamponare ventri squarciati, a correre nei campi minati, a scavalcare fili spinati e di non esser mai venuta a casa tua a dirti quanto ti ho amato, a dirti quanto sei bello. 
Ho seguito il tuo volo da lontano, pensando che non interferire fosse un gesto di difesa verso la tua libertà. Invece adesso, in mezzo a tutta questa morte, ho capito che l'amore non può essere discreto, non può avere  riserbo. Dovevo irrompere nella tua vita e farmi tempesta, dovevo gridarti sotto la pioggia di stare con me e con me soltanto, dovevo afferrarti per un braccio senza nessuna delicatezza e farti mille domande, insistere per ascoltare le risposte, respirare il tuo ossigeno, scompigliarti i capelli, rubarti il gelato, il Tempo; dovevo entrarti nel cuore come un coltello .
Quando la febbre mi avrà annebbiato la vista e la voce non mi basterà a ripetere il tuo nome, quando tutto si allontanerà, svanirà come in un sogno e la penna scivolerà abbandonata, ti vedrò  e mi ricorderò di quando il tuo sguardo cadde nel mio e per un attimo infinito pensai che in vita come in morte io sarei stata
per sempre tua,

Hannah Jones, infermiera volontaria


***


Venshenskaya, 9 dicembre 1942


Carissimo padre,

dite all'Emanuele che può star contento, adesso, a sapermi finalmente con il capo piegato e le ginocchia tremanti; io che per lui sono sempre stato il ragazzino saccente, sempre in piedi, pronto a farsi la ragione e tutto. Della faccia di schiaffi che ricordava lui, e forse pure voi, non sono rimasti che gli zigomi, appuntiti come i pomelli del vostro bastone. Così a sapere questo, quel grandissimo mentecatto -scusatemi padre-, la smetterà con la voglia di stampigliarmi addosso le sue manate schife sulla faccia. Per quel che va al di là di questo punto, io, poi, qui sono l'ultimo. Peggio ancora che a casa. Anzi, sono lo zimbello, se proprio ci tenete a saperlo. Gli altri soldati, quei poveri scheletri che sono rimasti, sempre seri e scuri in volto, quando mi guardano se la ridono e io che devo fare, oltre che guardarli da sotto questo elmetto che mi hanno dato, tre volte più grande del necessario. Ridono perchè non sono ancora morto, così gracilino, come dicono loro. Sono dei farabutti, dei maledetti animali, ecco che sono. Si fanno i superiori ripetendomi di stare attento, di stare in guardia. Roba che se il gelo mi azzanna un dito o mi becco una fucilata nel petto, finisce che la colpa è mia perchè non ho fatto attenzione. Per di più sono ignoranti, questi compagni miei. L'altra sera, per fare un esempio, è morto il Giacomo, uno delle isole, forse. Io mi sono messo a leggere quel libro di poesie greche, quello che mi ha regalato il prefessor Leucci e quelli indovinate che fanno? Ce la trovano sulla lingua. Non sapevano nemmeno dell'esistenza del greco, roba da offendersi a morte, che vergogna. Così mi son messo a tradurre qualche verso a occhio, ma qualcosa l'ho inventata io, giusto come mi veniva perchè il freddo sporco e assassino da un po' mi fa dimenticare le frasi e i pensieri e pure le parole. Fatto sta che, alla fine, menomale, quei quattro orsi si sono messi a piangere e, va be', io pure stavo piangendo e mi colava il naso, ma a queste temperature tutto scompare, perfino le lacrime. Se ne volano, si cristallizzano e non ti danno nemmeno la gioia di sentirtele scendere. Che gran fregatura. Però, siccome non posso cancellare e gli scarabocchi non mi piacciono, non dite a Emanuele che piango, papà. Sarebbe troppo per lui, l'avrebbe vinta ancor di più e noi qui stiamo già perdendo... non si riesce ad accendere il fuoco e le scarpe sono rotte da settimane. Questi continuano a dire che è per la patria, che prima la patria e poi la morosa, un sacco di frasi così, ma io penso che la patria poteva comprarcelo un cappotto un po' più pesante, se proprio ci voleva bene come dicono. A ricordarmela, scriverei qualche massima latina per chiudere, ma chissà dove è finita la mia memoria e chi lo sa come mi sento. Spero che la lettera la riceviate asciutta. Dite a Emanuele che è stato un buon fratello, dopotutto, forse il migliore che si potesse avere e che se vuole può anche ricordarmi come il solito seccatore irriverente, piantagrane e via discorrendo, basta che non mi dimentichi. E che non lo facciate nemmeno voi. Addio, padre, Dio vi benedica,

Giovanni


02/03/13

Descrizioni del suono per non udenti

di Cristina Taliento

QUINTO: BACH, SUITE N. 1 SOL MAGGIORE (Violoncello)



Le tre del pomeriggio di giugno. Gli uccelli si muovono piano sui fili della luce e guardano un gruppo di ragazzi che giocano nel campetto compreso tra i tralicci e gli alberi piantati sul ponte per la tangenziale ovest. Tap tap le All Stars battono sul campo rovente, schivano, volteggiano, prendono l'inclinazione del vento, scivolano, tap, rallentano, di punta aspettano, a tratti tremano. Poi scattano di nuovo. Giocano. Le scarpe avversarie hanno un mezzo sorriso, un baffo, quasi un ghigno: pazienti, cercano la pausa, il punto nel pentagramma, per entrare nella battitura e rubare la palla. Una mano si tiene a terra, trattiene una canottiera. Movimento continuato, si abbassa, si flette, non si spezza. Un muscolo non si contrae se l'altro non si distende. I treni sfrecciano metallici oltre il campetto. Escono dai binari, i vagoni si snodano tra i palazzi, salgono, camminano sulle nuvole, trapassano l'atmosfera, si lanciano nello spazio e poi si gettano di nuovo con paracaduti e arrivano puntuali in stazione. Il murales di Marylin Monroe, dietro la rete,  fa l'occhiolino, manda un bacio fucsia, ma le All Stars non ci pensano, corrono lungo la linea di divisione, staccano, saltano e poi si girano distese, si guardano intorno, accarezzano un polpaccio, una caviglia, ritornano a terra, si piegano, respirano un po'.  Le ragazze, sedute con le spalle al muro, parlano e ridono e si alzano, dicono "lo sai fare questo?". Pirouette. Demi-plié, battment tendu e grand jeté. E uno e due. Piano sale il braccio, poi veloce gira intorno la testa, va indietro, si piega contro il cielo celeste soffiato di nuvole, si flette, lento, lento, lento, poi giù, fende l'aria, si appoggia sull'altra spalla.  E nessuno conta il tempo o i punti persi, le note vanno da sole, ma passano le stagioni, continua il movimento, le piogge coprono la pianura, la città, i palazzi, il campetto, ma le All Stars corrono ancora e saltano tre metri dal suolo, si elevano, si piegano, alzano polvere e terriccio. I calzini bianchi si allungano, le gambe arrivano in alto, suuuuuuuuuu, suuuuuuuuu, i muscoli salgono e poi, canestro.

Foto numero 1 inesistente. Guardo nell'obiettivo; decido di non scattare.