18/05/13

Santa voglia di vivere

di Cristina Taliento


(Untitled 39, Ben Olson, oil on canvas)

Ci hanno detto che le cime sono destinate a rimanere in solitudine, in mezzo alla gente eppure sempre un po' tristi e sole nelle loro magnifiche auree, spalle intoccabili, lunghi sguardi. Ci hanno detto che il nostro posto nel mondo non era il mondo, in fondo, ma le stelle e l'infinito perché eravamo troppo sensibili, brillavamo, perché vedevamo molto, ci stupivamo, perché ci innamoravamo delle mani degli altri dietro i nostri elmi di guerrieri smarriti. E poi siamo scappati da questo destino, ci siamo lavati di dosso la dannata grandezza, abbiamo battuto il pugno sulle porte che avevamo chiuso, abbiamo guardato arrabbiati per ore il piedistallo su cui siamo stati per anni e l'abbiamo odiato. Ci siamo abbassati, ricoperti di fango e pioggia nella sera respirando affannosamente ai semafori, respirando come iene senza correre, senza nemmeno alzare il passo, soltanto stando fermi. Abbiamo finalmente smesso di sentire così forte, di vedere così dentro. Volevamo solo ballare nella folla ed essere folla, essere passanti sui marciapiedi, nient'alto che signori passeggeri, signori telespettatori, cari ragazzi facenti parte della categoria studenti del primo anno, lettori, cavie da esperimenti, numeri, lettere, codici a barre. All'improvviso gli scrigni segreti riempiti di nostri sentimenti, di ricordi preziosi e poesie, di delicati centrini fatti a mano, di fiori lasciati insecchire tra le pagine dei libri, all'improvviso, tutti questi vecchi tesori ci sono sembrati gioielleria di plastica, inutili patacche del mercato delle pulci. Seduti al tavolo della cucina, soli, all'ora di cena, abbiamo pianto davanti i nostri piatti di pasta, osservando da fuori il nostro sgomento, incapaci di trovare una diagnosi o tutt'al più strafottenti nel sentire le ragioni, nauseati dalla nostra filosofia. Ci siamo alzati, ma in realtà, volevamo farci piccoli, confondere le nostre voci, smettere di stupire, di ingannare. Volevamo parlare la lingua degli altri facendo cadere in disuso la nostra antica lingua dell'immaginazione perchè volevamo, io credo, vivere con l'umanità, con loro e dire le loro frasi al posto di quelle che non potevano essere capite e ancora, bere le loro birre, accarezzare i loro capelli, cantare le canzoni che passavano i dj della radio e muoversi su questo ritmo, su questo tempo, dimenticando il nostro, giurando 'questa volta per sempre'. E quando noi abbiamo urlato a pieni polmoni, quando abbiamo scritto parole brevi su lenzuoli smessi, ci hanno risposto tutto normale, che erano i vent'anni, gli istinti, l'inquietudine, la santa voglia di afferrare tutto, di vivere tutto. Ci dissero, e qui sbagliavano, che volevamo fermare il Tempo perché ne eravamo spaventati; terrorizzati, dissero. Ma il fatto era che noi- noi che lasciavamo passare i treni senza ostacolare le estinzioni delle specie, noi che amavamo  la breve vita di un fiore o quella di una farfalla- proprio come treni, volevamo passare, passare una volta sola, ma passare bene e passare fino in fondo, fischiando come matti a luci accese nella notte. 

15/05/13

Finiamola qui


di C.T.

Ieri ho inscenato il funerale del mio amico immaginario. Una cerimonia d’altri tempi.
“Di che morte mi fai morire, dunque?” ha sussurrato disteso sul letto, con un occhio chiuso e l’altro mezzo aperto.
“E che ne so, l’esame di patologia sta al terzo anno”. Ha sospirato intrecciando le dita sulla pancia.
Ero seduta su una sedia accanto alla finestra e un po’ guardavo fuori, un po’ guardavo lui. Per entrare nell’atmosfera mi ero messa gli occhiali da sole Ray-Ban, montatura rosso ciliegia e un fazzoletto legato intorno alla fronte, stile pirata.
 “Magari qualche malattia genetica. Che ne dici?” ho detto, dopo un po’, per sollevargli il morale.
“Oh, se proprio non c’è altro…”. Era proprio in punto di morte, ma di quale morte si trattasse… anche quello era il punto.
“Dovrei vedere su Google”
“Pesca da quello che ti hanno fatto vedere a Storia della Medicina” ha suggerito con indifferenza.
“Si, ma… va be’, ma… ti piace il colera?”
“Beh… c’era anche il vaiolo, ad esempio”.
“Si, ma il vaiolo è stato debellato. Sarebbe una morte anacronistica”. Proprio quest’aggettivo, si.
Ha sospirato di nuovo. Mi sono alzata per andare a prendere gli appunti. E mentre fissava rassegnato il soffitto, io sfogliavo lentamente le pagine.
“Qui parla, a un certo punto, dell’AIDS. Te la senti?”
“Non saprei”.
“Virus Ebola” continuavo con gli argomenti.
“E che diavolo è?” ha alzato la testa dal cuscino.
“Eh mah! Una cosa terribile, terribile”. Sapevo solo questo.
“Allora, se non ti dispiace, passerei oltre”
“Oh, questo è sicuro” ho detto facendo la battuta. Ma lui non ha riso, non ha fatto niente.
Mi sono schiarita la gola: “Puoi sempre morire d’influenza”.
“Questa è la ricompensa dopo anni di compagnia. Complimenti, davvero. E’ la morte più ridicola che abbia mai sentito”
“Beh, non così ridicola…”
“Preferisco l’impiccagione”
“Io non ti ammazzerei mai” ho mormorato alzando le spalle.
“Ma sarò io a farlo, buon Dio, se non mi trovi una morte decente, che cavolo!”. I suoi occhi si sono di colpo accesi, fiammanti come due mozziconi di sigaretta. Stava sprecando le sue ultime forze per farsi la ragione.
“Ti posso inventare una malattia. Una malattia bellissima!” ho esclamato, a quel punto, presa dall’entusiasmo.
“Più bella della sifilide?” mi ha chiesto con fare dubbioso.
“Oh si. Una malattia con delle eruzioni cutanee del colore delle rose in primavera, pustole grigiastre intorno alle sopracciglia, mucose infiammate fino alla follia, unghie sanguinanti e pupille… pupille verde fluorescente!”
“Mmm. Malattia rara?”
“Rarissima. Uno su un milione” ho annuito sorridendo.
“E come si chiama?”
“Eh… vediamo… si chiama: incendiaria. Per via dell’infiammo”.
“Quali organi colpisce?”
“Tutti un po’!”
“Ebbene, acconsento. Acconsento che la mia morte avvenga ora, in questo giorno, a causa di incendiaria” ha detto, infine.
Ma un po’ mi dispiaceva. Mi sono tolta gli occhiali e ho detto:
“Addio, signore. Non ti dimenticherò”
“Tu l’hai già fatto, ragazza”
“Ma come?”
“Mi avresti messo in coma, se mi avessi voluto davvero tenere al tuo fianco”
“Sto invecchiando, non lo vedi? Guarda che voce seria che mi esce. Devo adeguarmi all’età. Non fare storie e girati sul fianco pronto per l’iniezione. Avanti!”
“Tu vuoi fuggire"

Basta, non mi va più di scrivere. E' morto e basta. Poi me ne sono andata.

10/05/13

Lettera di un figlio su un'amaca

per un'invenzione di Cristina Taliento



Caro papà,

caro papà che quando avevi i miei anni andavi al classico e poi in campagna a raccogliere olive, che non avevi una lira e ti pagavi l'università lavorando la sera e studiavi la notte, che mentre tua madre moriva per il morbo di Chron tu eri per i tuoi fratelli tutto e nel giorno del funerale ti sei sei sentito per la prima volta adulto, che hai sposato la più bella tra le tante che ti volevano come marito e al tuo matrimonio sei corso in ospedale per salvare una vita e solo dopo sei tornato per baciare la sposa, che a neanche quarant'anni sei diventato il primario di Ginecologia e adesso te ne vai in giro per il mondo a tenere convegni e intrattenere colleghi con le tue brillanti risposte di genio, facendo sfoggio delle tue umili origini, scusami se probabilmente io, al posto tuo, in quella campagna in cui sei cresciuto, mi sarei costruito un'amaca per passarci disteso la giovinezza con una sigaretta in bocca e, magari, indosso il solito vecchio paio di jeans che, chissà perchè, ti sta tanto sul cazzo. Scusami se non ho nè la forza, nè la voglia di far cadere le donne ai miei piedi come facevi tu nonostante i miei, anzi "i nostri geni sexy", scusami per queste scuse in cui credo così poco, ma scusami davvero per le canne di cui sono veramente pentito e di tutte le altre debolezze come, per esempio, il Nesquik nel latte, i 4 in matematica, le unghia mangiucchiate e il foglietto con il numero di quella Monica che da tre anni ho nel portafogli senza che mi decida di chiamarla. Io non so che cosa diventerò da grande, ma la tua santa voglia di conquistare il mondo io non ce l'ho e grazie a Dio, aggiungerei. Io sono lento nel bere il latte, non come te che prendi il caffè e scappi. E mi fermo spesso per le strade su cui cammino ora per una cavalletta morta ora per un volantino di un cane che si è perso. Perchè, vedi, io non mi immagino   con la cravatta al collo, ma nemmeno con la valigia di chi non sa dove andare. Mi piacerebbe un'amaca su un molo, un libro, un tramonto e una tazza di latte e Nesquik. Il prossimo anno mi iscrivo a Filosofia, comunque.

Io, chi altri... 

06/05/13

La sorellina


di Cristina Taliento

(Primi fiori, Francesco Fanelli, 1899, olio su tela, 180x237)

Se sapessi ancora scrivere, potrebbe darsi che scriverei della sorellina. Ma ormai, peccato, non ne sono più capace. Scrivere, intendo. Non ci riesco più. La pagina bianca è così grandiosa, in fondo. Il bianco è la potenzialità del tutto, la neve, l’albume, Moby Dick. Non scrivere niente può farti sentire come un’immensa pianura illuminata dall’alba. “Il vuoto, infatti, è sempre stato pienissimo” se ne esce dicendo il mio alter ego da sopra il giornale della domenica. La mancanza d’ispirazione e l’allontanarsi delle idee allargano il campo di questo vuoto che mi assomiglia a quello dell’Universo. Meno c’è, più c’è; proprio come in uno di quei paradossi alla Sir Henry Wotton. Le parole, le opinioni tolgono via via lo spazio, lo dividono, lo fanno diventare qualcosa di specifico. Una storia sarà sempre una storia sola, ma una pagina bianca… oh… in una pagina bianca ci sono tutte le storie del mondo. Soltanto che non si leggono. Si respirano.
Tuttavia, se sapessi ancora prendere la penna in mano, mi verrebbe da scrivere di questa bambina di sette anni un po’ matta. Non se se inizierei con una descrizione. Probabilmente, per non perdermi nei particolari, inventerei sul colore degli occhi perché sarebbe più semplice. Voglio dire che nella realtà è più complicato, cioè i suoi occhi sono complicati. Da quando è nata, alcuni dicono siano blu notte, altri verde petrolio. Anche grigi, chissà. E in lei non c’è niente di facile da descrivere, comunque. Poi, io ho smesso di provare a modellare le frasi per incartare le rose perché ho riempito il cestino di fogli senz’anima ed è meglio se li uso per bilanciare reazioni, calcolare le moli o disegnare gabbiani sugli angoli. La scrittura, come l’amore, non si può rincorrere a lungo. A un certo punto è meglio se ti siedi. La mia panchina è una di quelle del parco. Quelle dove ti passano davanti le carrozzine e i bambini che si spintonano con una mano mentre con l’altra stringono un gelato o un supereroe di plastica. Da questa postazione di vita leggera ho pensato alla sorellina e mi sono dispiaciuta di non saper più scrivere perché sarebbe bello raccontare di lei, dei suoi gattini che vuole farmi accarezzare, dei suoi capelli che sono sempre più lunghi ogni volta che la rivedo. Inventare personaggi è facile; sono le persone vere ad essere così tante cose in una sola. Bisogna essere davvero dei maestri per farne dei ritratti e io… io voglio fare il medico.
Per questi fatti e per queste ragioni, ogni parola scritta non riuscirà mai a tracciare i veri contorni della sorellina,  ma si dice che quando sentiamo la mancanza di qualcuno ritorniamo a cercare la cura del vuoto in quelle cose che un tempo erano piene. E come riempivano i miei silenzi quel ticchettare di falangi slegate sulla tastiera!
Così, durante le vacanze di Pasqua, quando sono tornata a casa, mi è venuta l’idea di andare a prenderla all’uscita di scuola. Ho parcheggiato sul lato opposto al vecchio portone, sempre lo stesso da generazioni. I suoi occhi mi hanno puntato subito. Bang. Ho fatto ciao con la mano, ma le sue braccia mi erano già intorno al collo, tra i miei capelli. La sua infanzia irruenta ha atterrato con un abbraccio improvviso la compostezza riflessiva di una povera ragazza di vent’anni in camicia azzurrina, con le spalle mantenute dritte da paure, dubbi, atti di fede e di forzato coraggio, tavole anatomiche e tazze di caffè. Come una scema, ho detto piano:
“Come ti sei fatta grande”
Mi ha detto: “Non è possibile. L’ultima volta che mi hai vista è stata un mese fa”.
“Un mese fa…” ho ripetuto accarezzandole la testa.
“Lo sai che la gatta è incinta?”
“Oh…”.
“Ma non la gatta che hai capito tu. L’altra. Quella tutta nera”.
“Ah si, l’altra…”
“Hai capito quale? Tu fai si si e magari non ti stai ricordando”
“No…Si, ho capito” l’ho rassicurata giocherellando con il suo braccialetto a perline bianche e verdi.
“E di che colore possono nascere i gattini?” mi ha chiesto allontanando il braccio per riprendersi l’attenzione.
“Beh, bisognerebbe vedere il colore del padre, suppongo”
“Deve essere di sicuro quello arancione” ha sospirato lei
“Si… allora, come vai a scuola?”
“Bene. Quindi, di che colore possono nascere?”
“Anche a macchie per via del corpo di Bahr del cromosoma X inattivato in modo casuale” ho risposto  in automatico.
Chissà perché si è messa a ridere forte. “Possono nascere tutti tutti neri?”
“Possibile… Mi dai un bacio?”
“Possono nascere tutti arancioni?”. Non c'era verso di studiarla da ferma.
“Je ne sais pas. Nessuno lo sa!- ho esclamato facendo la rima- Che bello quel braccialetto. Me lo regali?”
“No. Se nasce arancione lo chiamo Garfield”
“Chi è Garfield?” ho chiesto per divertirmi un po’.
 “Come chi è Garfield? Quel gatto dei cartoni animati che fanno su Boing. Non fare l’imbecille ”
“Non dire le parolacce altrimenti, poi, le ripeto”
“Mica è una parolaccia. Cazzo è una parolaccia.”
 “Anche. Mettiti la cintura”
E poi si è girata per prendere la cintura, ma mentre la faceva scorrere lentamente, mi guardava.
“Che c’è?” ho chiesto notando la sua espressione.
“Sembri quasi la mamma”
“E’ per via della macchina” ho risposto premendo i palmi sullo sterzo.
“No…” ha fatto lei scuotendo la testa.
“Okay…” e non lo volevo sapere il motivo.
“Un giorno voglio diventare come te”.
“Sarà per questa camicia che ho preso dal suo armadio”
“Un giorno sarò come te” ha ripetuto pensando che prima non avessi sentito. Ma io avevo sentito, anche se non avrei voluto.
 “Non lo so veramente se è un grande affare” ho pensato, alla fine, guardandola. 
Però, poi, non ho detto niente perché mi sono ricordata di quando anch’io volevo diventare come le ragazze del corso superiore di danza, ma quelli sono pensieri che si dimenticano presto come una farfalla che la pensi solo quando ti passa accanto e poi, dopo, noti altre cose, altri alberi. Ho sorriso e ho messo in moto. 

Quando sono ripartita, alcuni giorni dopo, sapevo che l'avrei rivista dopo gli esami. Piangeva per me. Si è tolta il braccialetto con le perline bianche e verdi e me l'ha dato e io ho pensato che fosse di vitale importanza accettarlo.

Ma potevo scriverla meglio sta storia.