29/06/13

Avventure di un Felicitiere - Il venditore di palloncini

di Cristina Taliento

(Balloon seller, Alan Maley, oil on canvas, Private Collection)


Il sabato mattina il Felicitiere camminava fino al parco percorrendo i viali alberati dell'ospedale, usciva dal cancello principale che dava su Via dei Gendarmi a Cavallo e da lì, svoltava a destra per prendere il marciapiede che correva lungo il fiume. A metà strada, si fermava all'edicola del signor Bettati, dava uno sguardo alle copertine delle riviste di moda, allungava il collo per leggere i titoli del Sole 24 Ore, poi, in un sorriso, chiedeva con tono risoluto, come si sarebbe chiesto un hamburger, il D di Repubblica con Repubblica, ovviamente. Ogni sabato mattina il signor Bettati le ricordava che non c'era bisogno di specificarlo, che gli allegati sono sempre assicurati insieme al giornale e lei rispondeva, prendendo le monete dalla tasca: "Questo lo so benissimo, la ringrazio!". C'era un punto fisso nell'abitudine, lei l'aveva sempre saputo. Le azioni, le parole ripetute, rimangono come un'impronta in quello che siamo. Sono puntelli della memoria, l'affermazione universale delle cose che ci piace fare. 
Con i giornali sotto il braccio, raggiungeva il parco. Si fermava, constatava che le chiome degli alberi erano cresciute più in altezza che in larghezza dall'ultima volta che era stata lì,  che le camicie del giostraio erano sempre meno stirate e che il Comune, a giudicare dalla media di mozziconi di sigarette per terra, doveva aver licenziato almeno altri due spazzini nel giro del mese di maggio. Poi, pensando ai figli degli spazzini, si sedeva sulla panchina costruita in memoria di un certo Mario Bussola, partigiano italiano, nato nel 1912 e  morto nel 1993, "che amava raccontare a coloro che avessero voluto sedersi al suo fianco, storie d'amore e storie di guerra". Per questo, il Felicitiere non si sedeva mai al centro della panchina, ma soltanto a destra o a sinistra, di modo che, se a quel Mario Bussola fosse venuta la voglia di tornare dal suo viaggio, avrebbe non solo trovato libero il suo posto, ma vi avrebbe visto, lì seduto, anche un interlocutore con il giornale chiuso sulle ginocchia e la testa tra le nuvole. In realtà, "oh no, si fermi, cara narratrice- avrebbe detto Mario, da lassù, con la divisa da ufficiale e tre medaglie sul petto- quella lì non è una testa tra le nuvole! Guardi meglio, signorina! Non le pare che quegli occhi apparentemente persi, stiano, al contrario, fissando innumerevoli particolari traendone le più argute e men che mai evidenti considerazioni?". Si sarebbe potuto, in effetti, supporre di si. Con la testa inclinata leggermente indietro, le mani intrecciate sulla camicia a righe bianche e verdi, ad un osservatore poco allenato, quei pensieri nella sua testa si sarebbero potuti collegare, con facilità, a sogni. Tuttavia, un vero osservatore, vi avrebbe riconosciuto in quello sguardo, il vero sguardo degli uomini di scienza che guardano con curiosità e innocenza insetti, rughe e fili d'erba e, poi, con la stessa voglia di giocare, raccontano quello che hanno visto in formule, grafici, mappe del tesoro segnate da x e pi greco.
Pur amando i sogni, in quel momento il Felicitiere non sognava affatto. Guardava, invece, il palloncino a forma di zebra dell'uomo che da anni, sempre in quel metro quadro, curvo, sotto il sole, sotto la neve, vendeva elio, He, numero 2 della tavola periodica degli elementi. "Gas nobile" mormorò il Felicitiere e si ricordò, in un lampo, di un'estate di quindici anni prima, passata su una veranda circondata da alberi di limone, dove lei, sdraiata sul dondolo di sua nonna, preparava l'esame di chimica, lasciando il libro solo per scrivere, a testa in giù, qualche poesia sui pappagalli e sul Tempo. 
Il venditore di palloncini non era stato sempre così triste. Il Felicitiere pensò che doveva esserci anche di lui, una foto di nozze, una risata ancora nel vento. Lentamente la sua schiena si era piegata e più l'elio lo tirava verso l'alto, più la sua gobba costringeva la sua testa a guardare in basso, a guardarsi le scarpe, mentre, in quel parco, le stagioni si susseguivano così distintamente l'una dall'altra. E non era tanto il non saper percepire la neve o la pioggia ad estraniarlo dal mondo, perché anche guardando in basso ci si poteva accorgere del clima, ma, tutt'al più, a mancare dalla sua testa e dalla sua bocca era quel vitale e presente "sta piovendo!" oppure "sta nevicando!". 
Al centro del parco e al centro della città, lui era finito con l'essere fuori dallo spazio, prima di tutto, fuori da se stesso. Le rughe avevano seguito non l'andamento del sorriso, ma quello del broncio. Le guance, le spalle, le ginocchia sembravano tendere insieme verso il basso ed era curioso notare come quel mazzo di palloncini contrastasse in leggerezza e spirito con l'immagine di quel vecchio stanco dei colori e dei bambini. 
"Posso avere il lupo?'" chiese il Felicitiere facendosi ombra sugli occhi con una mano, mentre con l'altra indicava il palloncino. 
Il venditore di palloncini, senza guardare chi avesse parlato, cercò il filo dal mazzo, lo seguì dall'alto verso il basso e vide che quello che aveva in mano non era il filo del lupo, ma del gabbiano. Si passò un dito sotto il naso, storse la bocca. Il Felicitiere rimase in silenzio per un attimo, ma poi disse:
"Va bene anche il gabbiano"
Il vecchio non rispose, ma continuò a cercare il filo. Poi ne tirò uno. Il lupo si mosse:
"E' questo" mormorò.
"Si"
Prese la forbice e ci mise un poco per infilarvi le dita. Poi tagliò lo spago, prese il palloncino e lo diede al Felicitiere.
"Grazie. Quant'è?"
"Sono tre e cinquanta"
"Ecco qui" disse il Felicitiere allungando una banconota da cinque. "Sono le nuove banconote da cinque. Non le ricordano un po' il Monopoli?" 
"Il Monopoli?" biascicò il vecchio. 
"Ci giocavo quand'ero piccola..." 
"Mmm! Quanti anni ha?"
"Trentaquattro"
"Beh, non ha tutta la vita davanti, ma quasi..." disse mentre rimetteva la forbice nel marsupio appeso alla sedia.
"Lei no?"
"No, io no"
"Perchè no?"
"Perchè ho sessant'anni, buon Dio!" disse il venditore di palloncini guardandola dietro la fronte corrugata.
"Winston Churchill a sessant'anni diventava primo ministro"
"Sciocchezze!"
"Esatto, aveva quasi settant'anni"
"Oh, signorina! Ma cosa vuole da me?"
"Lei crede che io non l'abbia notato questo male di vivere che si porta addosso come un peso al piede? Lei crede davvero di stare bene così ridotto, così corroso da tanto disamore?"
"E lei che cazzo crede?- chiese il vecchio gridando a bassa voce- Crede che si possa guarire dall'oggi al domani dai tanti Novembre passati in questo parco a vendere palloncini, dalle delusioni? E' una psicologa o roba simile? Beh io vi dirò che voi matti della gioia non siete molto diversi dai rappresentanti di pastiglie brucia grassi o, addirittura, dagli spacciatori di erba. Credete di vendere i vostri sorrisi, le vostre smancerie, invece non conoscete la vita. Non sapete quando l'abitudine vi mangia le ore e i mesi. E la chiamano abitudine, mentre per voi è la vostra morte e per gli altri soltanto un mazzo di palloncini di elio colorati".
Il Felicitiere guardò in basso. 
"Non è strano che prendiamo a noia le cose che un tempo abbiamo amato così tanto?" chiese, poi al vecchio.
"No, non mi sembra strano. Per niente"
"Invece è proprio buffo" disse il Felicitiere con lo sguardo ipnotizzato tra gli alberi.
"La prima volta di tutto è unica e sola. Tutto, dopo, è assuefazione. Noia"
"Bisognerebbe introdurre, ogni volta, delle varianti"
"...  O sbarazzarsi di ciò che non varia da tempo!" esclamò il vecchio e a quel punto un lampo di vita attraversò il suo sguardo e il Felicitiere lo vide. Lo vide, lo prese, ne fece l'antidoto, lo trasformò in parole e disse:
"Quanti palloncini sono?"
"Venti"
"Quanto fa venti per tre e cinquanta?"
"Settanta"
"Credo di averli!" disse il Felicitiere cercando nella borsa. "Ecco a lei!"
"Ma che diav..."
"Avanti! Tagli il filo! Tagli tutti i fili! Li tagli, subito!" disse mettendogli la forbice e i soldi in mano.
"Oh Gesù, ti prego... è una matta"
"Sarò matta, sarò colpevole pur di farvi cambiare idea. Su!"
Il vecchio, questa volta, si infilò le forbici più velocemente, tagliò il primo palloncino. Quello se ne volò via. Era una rana. I bambini lì intorno iniziarono a guardare in alto sorridendo e chiamando i loro fratelli.
"Li tagli tutti, non sarà difficile". Anche il vecchio sembrava un bambino mentre guardava volare tutti quei palloncini.
"Lei non era questi palloncini da parecchio tempo. Non erano la sua abitudine! Erano quello che la faceva restare di più  a terra!"
"Ma... ma..." continuava a dire il vecchio, però le sue mani continuavano a tagliare i fili.
Quando tutti i palloncini volavano nel cielo e la rana era la più lontana, il vecchio si mise le mani in tasca, poi con una si grattò la testa. E fece per andarsene.
"Dove va adesso?" chiese il Felicitiere, che se ne stava ferma accanto alla sedia dove prima erano legati i palloncini.
"Vado a chiedere al mio amico Nino se per caso ha bisogno di una mano con la ferramenta..." rispose confuso. 
"Ehi! Erano solo dei palloncini! Se vuole può ricomprarli e poi rinvenderli!" disse il Felicitiere per metterlo alla prova.
"Forse si. Forse no...- rispose il vecchio venditore e poi si avvicinò a lei e le ridiede i soldi dei palloncini- Credo che questi siano suoi perchè quei palloncini erano cazzi miei. Sbarazzarmi di loro, intendo"
"Grazie" disse il Felicitiere prima di tornare alla panchina in memoria di Mario Bussola.

23/06/13

Avventure di un Felicitiere - La memoria

di Cristina Taliento

(Mad dogs, Jack Vettriano, oil on canvas, Private Collection)


Di quando il Felicitiere va a pensare sulla spiaggia e incontra questo ragazzo lupo un po’ paranoico con una cicatrice sotto l’occhio destro e  intanto, i gabbiani volano sulle barche e nell’aria si sente “Don’t worry, be happy” di Bob Marley, anche se di questo la narratrice non fa particolare menzione.

***



All’alba era possibile incontrare il Felicitiere. Al chiosco dei gelati al pistacchio, oppure sugli scogli più bassi. Tuttavia, la sua figura apparteneva a quelle immagini che, a volerle ricordare, vengono in mente solo viste da lontano. Lei aveva in sé la lontananza di una fotografia; si poteva guardarla a lungo, ragionando con impegno sui suoi contorni, ma la visione rimaneva legata alla prospettiva, alcuni particolari, nascosti, segreti per sempre. Aveva la grazia delle ultime onde che, pur avendo attraversato l’oceano intero, arrivano calme sulla spiaggia e lasciano intendere che se non fosse per la sabbia potrebbero continuare con la stessa ferma intensità per almeno altri migliaia di chilometri. 

L’ospedale sorgeva, insieme al plenilunio, nel celeste chiaro di una giornata ancora giovane e sorgeva bene, sul mare, come un castello e lei si disse che era proprio bello, così bianco, così eroico e solo davanti a tanto ossigeno. 
Salì sulla duna più alta per il gusto di mettere i piedi nudi sul mondo, aprì la braccia, respirò per vedere meglio. Il pastore tedesco la guardò dal basso con l'aurora alle spalle, mentre lei l'aurora ce l'aveva negli occhi, verdi smeraldo e ora verdi d'arancio. "Jack!" chiamò. Il cane abbaiò in risposta. Ma il Felicitiere non disse altro. Si mise le mani sui fianchi e stette a guardare ancora un po' il panorama con il bastoncino di liquirizia spezzato tra i denti; spezzato, nascosto per metà come d'altronde anche il suo sorriso. 
L'estate... in una parola avrebbe detto, odore di erba bruciata. Scostò il polsino della divisa verde dall'orologio. Le sette e mezzo. Il suo turno iniziava alle otto. 

Raggiunse lo scoglio dove aveva appoggiato le Converse nere. Allargò i lacci delle scarpe con un agile movimento delle dita e poi mentre tirava la tela lungo la caviglia, notò, al di là delle barche verniciate di rosso, un ragazzo. Il pastore tedesco abbaiò una volta sola. Il Felicitiere gli accarezzò piano il pelo dorato.
C'erano dei gabbiani che volavano, lì dove si incontravano i due mari, l'Adriatico e lo Ionio, i leggendari giganti di un impero antico.
Il ragazzo le ricordava lo Ionio. Era giovane perché nato da poco, perché i suoi muscoli non potevano aver visto che una ventina di inverni e altrettante primavere, ma, sotto l’occhio destro cresceva una cicatrice, una radice profonda che si riversava nel celeste ghiacciato delle iridi. I capelli scuri seguivano, spettinati, i contorni delle orecchie, arricciandosi appena sulla nuca e assomigliavano alla dura scogliera che abbraccia la più pura bellezza di lineamenti di alcune di quelle pianure del Sud. 
La tramontana camminava insieme al Felicitiere e al pastore tedesco e spettinava le loro linee come in un quadro impressionista. Il Felicitiere si sfilò un elastico dal polso, si legò indietro i capelli catturando tutto il vento che vi si era infilato dentro.
"Tramontana! Vento di tramontana!" gridò da lontano al ragazzo lupo che sedeva sulle ginocchia con il mento sul petto. La sua tristezza evaporava visibile tutt'intorno mentre dispersi nell'aria e nell'acqua c'erano decine e decine di fogli, pagine strappate, taccuini interi ora completamente bagnati dalle onde. Alcuni pezzi di carta erano volati fino all'inizio delle dune, altri sembravano gabbiani per quanto erano stati spinti in alto dalle correnti. Piano, il ragazzo alzò la testa  e guardò nella sua direzione lasciando che il suo sguardo supplicasse, al posto delle parole, per un ritorno al silenzio e alla solitudine.
"Dicono che il vento cambi giovedì!- continuò invece il Felicitiere- Saranno contenti i ragazzi del Kite Surf".
E notando che quello non rispondeva affatto, disse indicando i fogli nel mare :
"Sono le pagine di un libro che hai scritto?".
"No"
"Poesie dell'adolescenza?"
Scosse la testa.
"Lettere d'amore?"
"Io non ho mai amato" disse il ragazzo di colpo e a quella sua stessa frase si emozionò. Una lacrima si districò dalle ciglia e cadde. Il Felicitiere la vide brillare controluce prima che raggiungesse la canottiera da basket del ragazzo.
"Io non ho mai amato perchè tutte le volte che mi sono innamorato, poi me ne sono andato perchè avevo un sogno, avevo una speranza e ho vagato a lungo, di notte, di giorno. Ho vagato pur stando fermo. Seduto alla scrivania. Un ragazzino di sette anni con la media del dieci e il costante, pulsante, sentore di essere un somaro. Un ragazzino di quattordici anni con un taccuino pieno di domande, con un armadio di libri per cercare le risposte. Un ragazzo di vent'anni che ha letto un milioni di libri. Sempre io. Lavora dura e fai il bravo. E se fosse bastato un patto col diavolo per avere la conoscenza..." un sorriso amaro tagliò di sbieco la sua guancia bianca.
"Hai tutta la vita davanti per leggere un altro milione di libri" disse il Felicitiere con le mani in tasca.
"Ho tutta la vita davanti per assistere allo straziante balletto della sciocca memoria e delle raffiche di vento. Mesi di studio con il sudore dietro la nuca, anni di tutto questo leggere, anni per costruire palazzi di conoscenze e poi basta un secondo di terremoto per far sbiadire tutto, oppure basta il tempo che si deposita sulle formule imparate come la neve in inverno e nel momento in cui esci fuori a cercarle, ti accorgi di quanto sia stupido anche solo provarci. Svanirà ogni cosa!"
"Alcune cose restano"
"Oh si- rispose digrignando i denti- e la cosa che non sopporto di più è che resti nella mia mente il ricordo dello stupido odore del mazzo di carte da gioco di quand'ero bambino oppure il suono del carillon, cose così inutili, mio Dio... e che, al contrario, non ricordi più le inserzioni dei muscoli. Conoscevo tutti i legamenti, le ossa del carpo, sapevo distinguere ad occhi chiusi il numero esatto della vertebra che mi veniva presentata. Invece ora non so nulla, ho dimenticato tutto. Era la mia nuova, sudata ricchezza e se l’è presa il mare e sono ritornato povero, con i miei quattro avanzi di ricordi… e potrei studiare ancora e ancora, ma il tempo è limitato, la mia memoria troppo breve, io potrei morire, le mie mani potrebbero tremare per sempre".
E parlava così, agitando le mani tra i fogli e questi volavano nel vento, alcuni finivano nell’acqua e si scioglievano. Si alzò, tirò un calcio al borsone pieno di carte. Il pastore tedesco, destato da quel gesto di vitale, repentina, violenza, si mise ad abbaiare, ma il Felicitiere mormorò qualche buono per farlo smettere.

"Mi piace ricordare le cose- continuava a dire il ragazzo lupo- mi piace che le cose restino nella mente mentre vado avanti per avere la conferma che fossi davvero io a viverle, le cose, e non le cose a vivere me. E poi finisce che leggo il mio diario di sette anni fa e non mi riconosco per niente o solo in una dannatissima parte che, comunque, mai renderà giustizia al passato. Ero un altro ragazzino e avevo tredici anni, mentre adesso chi diavolo sono e avevo scritto finanche che sarei andato al cinema con Enrico e chi cazzo è Enrico. Io non me lo ricordo! E poi leggo la lista dei libri che ho letto e di alcuni non mi è rimasto che il nome dell'autore. Io ho vent'anni, ma non vivo di attimi, vivo di testa, di quello che imparo, di domande a cui sono riuscito a rispondere e preferirei morire invece di ritrovarmi un giorno a non ricordare niente, a non ricordare più il greco. Il latino, cazzo, il latino! Stai pensando che sto peccando, che sto peccando di saccenza. La mia pena di contrappasso sarà il morbo di Alzheimer."

Il Felicitiere si mise a ridere pur notando la sua disperazione, ma la sua risata ricordava vagamente il concetto della relatività dell'esistenza, di ciò che riusciamo ad afferrare, di ciò che non sarà mai davvero nostro. Il ragazzo lupo riuscì a intuirlo e anche lui rilassò le spalle, gettando uno sguardo alle decine di fogli che ora dovevano essere centinaia. Coriandoli. Uccelli di carta. 

Il Felicitiere si rigirò le mani nel camice non sapendo che dire. Il suo turno era iniziato da dieci minuti. Si girò per andarsene. Il pastore tedesco la seguì al suo fianco. Ma poi tornò indietro per dire che:
“Se in una notte di semiluna, in uno scafo un trapezio incontra un trapezoide… può darsi che non sia capitato come caso isolato, ma che anche un piramidale abbia incontrato un pisiforme”. 

“Scafoide, semilunare, trapezio, trapezoide, capitato, piramidale e piriforme” diceva piano sorridendo il wolf boy. “Manca l’uncinato”, disse poi. E lo disse come quei bambini che dicono la prima frase da calmi dopo aver pianto per intere ore.

Ah, fece il Felicitiere togliendosi la liquirizia dalla bocca. “Allora sarà quello che ti ricorderai meglio”.

E a quel punto il ragazzo si sarebbe innamorato di lei, anche se per poco, magari per tredici giorni soltanto, ma non era questo il bello. Il bello era che le sue lacrime erano asciutte e che per tutta la vita avrebbe ricordato le ossa del carpo e le avrebbe ricordate con una piccola stretta al cuore pensando a quella figura dai contorni sbiaditi e dai capelli castani di cui non avrebbe mai conosciuto il nome.

Gli aerei passavano sopra le loro teste. Erano le frecce tricolori  che si esercitavano per la sfilata del giorno dopo, domenica. 

21/06/13

Avventure di un Felicitiere - Intro

di Cristina Taliento


















Di quando la narratrice scrive e riscrive senza concludere un bel niente raccontandosi che, comunque, non è da questi particolari  che si giudica un giocatore.
(…perché “Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’ altruismo e dalla fantasia” Francesco De Gregori, La leva calcistica del  ‘68).


Al mondo non devo niente, tranne che questa storia. E poi posso anche diventare un medico per fatti miei e lasciare che questi  racconti se li porti via il mare. Una volta avevo promesso che l’avrei scritta, avevo promesso… oh, sentite! Io non avevo promesso un cavolo a nessuno, io nemmeno volevo arrivare a questo punto! La devo scrivere e basta questa benedetta storia altrimenti muoio con il rimpianto… Ma no, quale rimpianto e rimpianto... Altrimenti muoio e basta, muoio adesso, qui seduta e basta. Punto.
Che poi non è nemmeno una storia. E parla, piccina, che cos’è allora? Non lo so. Oh mannaggia, al diavolo le influenze joyciane. Io per questa storia non so che stile prendere. La mia voce narrante, imbarazzata, si ritrae nemmeno avessi di fronte il vero amore. Ma il vero amore aspetta. Mi aspetti, quindi, storiella? Mi aspetti mentre bevo un sorso di limonata,  mi asciugo le mani sudate e faccio grandi respiri?
Il fatto è che quando penso a questo personaggio dall’anima ingombrante e schiva, quasi quasi, tutte le volte, piango. Ha i contorni indefiniti, perché è solo potenzialità, figurarsi se so com’è fatto fisicamente. Ancora deve nascere, ma è un feto rock. Molto rock oh yeah, gente. Tantissimo. Già. Questa è, per caso, la fase dove l’imbarazzo si traduce in un entusiasmo delirante? Eh beh, si, forse. Fatto sta che non è facile parlare con la storia dei propri sogni, nemmeno se manca di stile e di personaggi secondari.
 Ad ogni modo, c’è già il titolo inglese per eventuali traduzioni e trasposizioni cinematografiche: The Happinessier- Il Felicitiere. Oppure The Adventures of The Happinessier, che sarebbe Le Avventure del Felicitiere. 
Ma che sto scrivendo? Che Voce è mai questa? Se fosse una canzone sarebbe quella che fa, c’era un merlo, craaaa, un merlo, craaaaaa, un merlo, un merlo, cra, cra!! Mamma che James tarocco che sono.
Come faccio a scriverla? Io non so più scrivere da sette mesi e dieci giorni. Perché tutte queste domande? Appellati al potere delle falangi e piantala, per Giove! Oh, falangi, falangine, falangette, battete forte su questa tastiera, battete come pioggia senza ascoltare cuore e cervello, quegli impostori egocentrici. Solo voi, umili, sapete prendere le cose con ritmo e suonate e operate e battete. Perché, signori, gli scrittori che scrivono con il cuore e con il cervello saranno pure i migliori, ma noi, mezzi scribacchini dalle falangi rotte, siamo i più temuti campioni di Fruit Ninja 3 e Ruzzle. Mica scherzi.

E comunque il Felicitiere è una donna. E che me ne importa se vi ho rovinato la sorpresa.

Dice la mia terza personalità: “Non è consigliabile assumere questo atteggiamento con i lettori. Alla lunga si stancheranno di essere trattati a pesci in faccia”.
Risponde la mia seconda personalità: “Noi scriviamo solo per noi. Loro non capirebbero”.
Chiede, ingenua, la mia prima personalità: “Perché? Ci sono lettori?”
Concludono all’unisono: “Solo due, ma burlarci di loro ci fa sentire meglio e placa i nostri complessi d’inferiorità”.

Dopo questo slegato, inutile intermezzo, riprendo dicendo che il protagonista si, è una donna, ma voi quando comprate il libro o quando, in generale, leggete il titolo, non lo sapete, né lo immaginate perché siccome vedete l’articolo “IL”, si attivano in voi quelle sinapsi del linguaggio che richiamano l’universo delle parole coniugate al maschile. Certo, sarebbe stato davvero grande e abbastanza sorprendente se, arrivati alla fine del primo capitolo, fosse saltata fuori la verità sul genere del Felicitiere. Un po’ come nei film con quei cavalieri che tirano dei colpi di spada pazzeschi, sono fortissimi e poi si tolgono l’elmo e sono donne. Un po’ come quel rompicapo che fa: “Un padre e un figlio hanno un incidente e il padre muore mentre il figlio va in ospedale, ma il chirurgo esclama: non posso operare! E’ mio figlio!”. Soluzione: era la madre. Era la madre il chirurgo, non era il padre ad essere resuscitato. Ma la maggior parte delle persone non ci pensa.
Insomma, certe volte non te l’aspetti che è una donna. E nemmeno qui ve lo sareste dovuto aspettare, in teoria, ma questa è una storia che devo scrivere e basta e non è che mi voglia ingegnare tanto per lo scopo di farvi tirare grandi oh di stupore con il rischio che sbaviate anche sulle mie pagine. Quindi, per mio ordine mentale, vi dico che è così. Andiamo avanti, questo, nossignori, non è un bar.

Il secondo punto o la seconda condizione molto importante da scrivere subito è che… me la sono dimenticata. Ma vi giuro che era davvero importante. Non so se la falangi aspetteranno la sciocca memoria. Si muovono così veloci sulla tastiera che anche ora, mentre si parla di loro, sono così impegnate che non si fermano nemmeno ad arrossire un po’.

Ah, ecco! Il secondo punto è che io dovrò farmi da parte. Sparire, eclissarmi completamente, dimenticarmi della mia presenza mentale. Se voglio narrare questa storia mi devo costruire una voragine che, a cavallo tra l’introduzione e il primo capitolo, mi risucchi fino all’ultimo capello, in modo che di me non rimangano che queste confuse parole del cavolo con cui si aprono senza nessuna gloria Le suddette Avventure. Una narrazione neutra è quello che ci vuole! Com’è che era? Onnisciente. Io sono il narratore onnisciente. Io sono il narratore tra la folla di schiaffi, il narratore in silenzio dentro la metro e guardo in basso e in realtà vedo tutto e ora la mia fermata è questa e… ora scendo… mi faccio largo tra le spalle… ora mi vedo ancora… ora no, sono sparita

18/06/13

Netter

di C.T.


      (Filippo Robboni, dalla mostra "Non Io")

Cereali moribondi nel non più voluto,
freddo, latte.
Maglietta bianca e pallidi avambracci
sopra pagine ampie,
ampie tavole anatomiche. Il Netter...
Da lontano una gru, un tricolore.
Le 15:07; qualcuno suona
un pianoforte, mentre io non ricordo
un accidente di niente,
mentre il mare e la scrittura chissà
quanto distano da questa pianura
lontana dalle coste.
Una penna verde cade dalla
bocca morta (fa caldo).
Only Nett knows about my existence.