25/07/13

Il segreto - Ritratti dei tristi

di Cristina Taliento

(Self Portrait as a Young Man, Sir Anthony van Dyck, ca. 1613-1614, oil on canvas, 43 x 33 cm, Akademie der Bildenden Künste, Gemäldegalerie, Vienna)



Chi lo guardava, guardava il segreto. Non lo conoscevano il segreto, quegli altri, ma vedevano lui e sapevano che nei suoi occhi si era impressa una luce non svelata, qualcosa che, nel buio, lontano da tutti, l'aveva cambiato talmente tanto da essere diventato la sua postura, le sue rughe leggere, il suo modo di voltarsi, annuire, appoggiare il mento sul palmo.
Lui era il suo segreto. Gli altri non facevano domande.
Era successo, talvolta, che qualche ragazza, passeggiando, si fosse innamorata di lui scoprendo più tardi, con sincero dolore, di non poter competere con il segreto, ingombrante come una terra senza nome, più rivale di un tradimento;  oppure accadeva che, dopo anni dall'abbandono, quella stessa ragazza si accorgesse che, in realtà, quell'amore per lui non era che amore per il segreto, adagiato sulle sue spalle, così magico come un velo trasparente, figlio di un altro tempo, dimensione.
Alcune di loro si innamoravano del suo segreto. Ed era buffo, perchè, appunto, non lo conoscevano. Altre  volevano a tutti i costi guarirlo, confessarlo per sempre, liberarlo per poi vederlo felice, ma poi finivano per stancarsi di quei sorrisi nostalgici, così difficili da capire, malinconici come note di flauto solitario su un fiume.
Senza dire niente, se ne andavano. Senza sbattere la porta, uscivano per sempre dalla sua vita e la cosa che più le faceva soffrire era l'idea che in quella vita, malgrado gli attimi insieme, i baci e le stelle- in quella vita, mai, in fondo, vi erano davvero entrate.
Così, invecchiò. Da solo, come un albero in mezzo alla savana, come una casa in balia del vuoto. Invero, intorno alle sue caviglie cresceva l'edera; l'edera si attorcigliava, poi, sulle gambe della sua sedia a dondolo, i capelli cadevano come l'intonaco, le ossa presero a fare gli scricchiolii delle porte, ma la sua casa non era vuota. Chi, d'altronde, avrebbe potuto pensarlo? Nella sua casa vi era il suo segreto, solenne, seduto sul trono di velluto del piccolo, modesto, salotto. Eppure era di velluto rosso. La sedia più importante, rispettata, di tutte. Perchè chiunque sapeva entrando in quella casa, che poteva essere il vecchio rudere in Via degli Artisti o più semplicemente la sua persona, che non si doveva gridare, nè dire qualcosa capace di ridestare il segreto.

"Tutti hanno segreti- lo aveva sgridato, una volta, la sua prozia Matilde Terza la Svedese- Smettila di fare tanto il coinvolto. La vita coinvolge, che bella scoperta! Lo sappiamo tutti! Ti colpisce, ti atterra, bravo. Smettila, ho detto, di fare quella faccia". Ma lui si era tolto gli occhiali per pulirseli con il polsino della camicia.  "Con permesso" aveva detto e poi era uscito.
Un'altra volta, invece, un insegnante di filosofia in pensione, gli aveva mormorato dietro la barba bianca: "Ad avere un segreto, certe volte, è come prendere troppo sul serio il passato... Lei non crede?"
"Che razza di uomo è quello che lo dimentica?" aveva risposto con la paura negli occhi, ma era il segreto che parlava.
"Un uomo che vive il presente, suppongo"
"Io sono anche memoria, professore".
"Eh... Perchè non prova ad aprirsi. Parlarne, intendo. Lei non deve dimenticare il passato; la strada giusta è accettarlo, elaborarlo, guardarlo da un'altra prospettiva. Mi segue? ".
"E se non fosse mio questo segreto?"
"Allora perchè fa come se lo fosse?".
La risposta, se mai c'era stata, non doveva aver soddisfatto l'interlocutore più di un solo, pesante, sospiro.
Era andata avanti per anni quella storia, quel silenzio. Lui non la smetteva di morire. Ogni giorno, alle sette di sera, davanti al gioco a quiz del primo canale.
"Ma che gli costava parlare, benedetto uomo! Che gli costava parlare!" se ne usciva, di tanto in tanto, il ricordo di Matilde Terza che, nel frattempo, giaceva da anni in un cimitero in Svezia.
Sebbene gli uomini taciturni e schivi spesso siano guardati con diffidenza, lui, al contrario, forse per la svelata onestà dei suoi occhi tristi, venne trattato con un più accennato rispetto.
Divenne per gli altri, con suo stupore, una specie di leggenda. Se, ad esempio, dei bambini avessero giocato a calcio vicino la sua finestra, magari una signora, passando da lì, avrebbe detto: "Andate più lontano, non qui! Qui c'è un uomo che vuole riposare...- e tra se e se si sarebbe detta- povero uomo, che coraggio, che sopportazione".

E poi alla fine, un giorno, così, chissà perchè, all'improvviso, un quarto prima delle sette, a un ragazzino:
"Il mio segreto... mi piacerebbe raccontartelo".
Il ragazzino smise di respirare, iniziò a sudare, spalancò la bocca, gli occhi, le narici. Conosceva la storia di quell'uomo e del suo segreto. L'aveva sentita sulla veranda di sua nonna tante volte, aveva immaginato omicidi, suicidi, vendette, figli nascosti, cospirazioni, spionaggio, fughe, rapimenti, richieste di riscatto, gioco d'azzardo, debiti, massoneria, illuminati, ordine dei Templari. Aveva giocato con un cavallo di plastica pensando al segreto di quell'uomo. E quando quell'uomo, che era diventato un vecchio, si era seduto a fianco a lui, tutta quell'immaginazione, il rispetto per il segreto, risalirono con impeto alla sua vista.

"Perchè io. Io..." iniziò il vecchio.
Ma il ragazzino era lontano. Vedeva lotte, spade che si scontravano, campi di battaglia, pistole, sangue. E quando il vecchio lo scosse per un braccio chiedendo- "E' buffo, vero?"- il ragazzino annuì, senza aver ascoltato una sola parola. Mentre il segreto sbiadiva nel vento come sbiadiscono gli anelli di fumo.

16/07/13

Canzone delle dieci mie cattedrali

testo di Cristina Taliento
...e la musica di chi vorrà


(Coffee and donut, Ralph Goings, oil on canvas, 2005)


    La prima è la terra, da quando sono nata,
verde e bruna, pianura del Sud,
scarpa comoda in mezzo alla pietra,
statue di santi, 
fumo nei campi. 

La seconda mio nonno, seduto di lato,
in silenzio nel suono, 
mi guarda, non dice, sorride,
già sa il futuro,
chi sono- sarò

La terza sono le guerre, le Torri Gemelle,
il fazzoletto bianco lanciato nell'urlo,
che muto rallenta nell'aria,
dall'ultimo piano, s'adagia
sui corpi, le fiamme. 

La quarta un pastore tedesco nero dorato,
con in bocca il vestito
di quand'ero bambina,
si acquatta,
mi aspetta.

La quinta è lo scheletro nella penombra,
arti sottili, verità relativa,
tra le falangi un cucchiaio d'argento,
riempito d'antibiotico
bianco, un po' rosa.

La sesta la scrittura digrignata,
tritata nel chiostro e uccisa,
sofferta, desiderata,
e, per amore poi,
tradita.

La settima è semiluna notturna,
che illumina i quadri nel pozzo,
distacca la tinta dalla tela,
fa ballare le figure,
-nude- nell'acqua.

L'ottava sono il sangue e la linfa,
caldi come la carne,
liquidi come le lacrime,
chiusi nei ricami delle vene,
vivi! Vivi!

La nona è l'azione, sopra ogni cosa,
che corre, si ferma, si dona
brilla nei piedi,
colora le foglie,
gialle d'autunno.

L'ultima le cose lasciate andare,
gli stormi che migrano nel cielo,
le barche lontane dal porto,
le rughe,
la mia gioventù...

14/07/13

Un'estate di lunghi silenzi e pace assoluta

un racconto di Cristina Taliento



Tutte le estati, all'infuori di quella, erano state dei circhi di sole e tramontana nei capelli, sale sulla pelle, palloni da calcio sgonfi alle tre del pomeriggio sul campo rovente. Canti, soprattutto. E fisarmoniche notturne, gridi di rondini e grida di ragazzi, fichi lasciati seccare lungo le pareti. 
Quell'estate dopo il diploma, invece, fu diversa. Cambiarono i suoni, il modo in cui essi venivano uditi. All'improvviso fu come se le strade, le spiagge con i loro falò, fossero state sepolte dall'acqua e io nuotavo con la maschera in mezzo ai semafori sommersi, tra le cabine telefoniche e, sempre nuotando dentro il mare, capitava che entrassi in qualche bar con la porta socchiusa, mossa dalle correnti marine. Le poche onde sonore viaggiavano veloci, svanivano subito. Intorno a me non c'era che silenzio. O forse ero io che avevo smesso di ascoltare oppure stavo solo crescendo. Girava voce che le peggiori, devastanti, metamorfosi avvenissero d'estate, nei campi, al morso secco di una taranta e che i sintomi si sfogassero in una danza irrequieta di muscoli in tensione, mascelle serrate, occhi spalancati, spaventati, posseduti. Io lo sapevo che mi stavo trasformando, che dovevo iniziare a incamminarmi sulla strada che avevo scelto, ma mi sentivo anche piuttosto calma e spesso, su una sdraio, mi sedevo sbadigliando con le dita intrecciate dietro la nuca. Ma dovevo andare. Comunque, bisognava che andassi, lontano da dov'ero. 
Per placare le mie velleità eroiche cercai la benedizione di qualche vecchio saggio e andai da uno zio di mio padre, andai nella sua campagna all'inizio di luglio, zucchine e melanzane sulle file di piante, un capanno degli attrezzi dietro l'antico, enorme, albero d'ulivo. 
"Buonasera" dissi alle tre del pomeriggio, sole dappertutto, sole fino alla morte.
"Buonasera" disse alzando la mano con il sigaro.
Era mio dovere di ragazzina allegra e loquace, quale si supponeva che dovessi essere per via dei diciott'anni e della mia maglietta fucsia, intrattenere il vecchio perdendomi in convenevoli e sorrisi o, almeno, riempire il silenzio con qualche discorso sulla scuola o altre chiacchiere del genere. Accadde che me ne stetti zitta, sospirando di tanto in tanto, mentre contavo e ricontavo tutte le sante piante di zucchine per ogni benedetta fila.
Il vecchio fumava lentamente e qualche volta tossiva per niente spaventato da quel silenzio.
"Sono uscite le pagelle?" chiese poi.
"Veramente mi sono diplomata" risposi.
"Sessanta su sessanta?" tirò ad indovinare girandosi a guardarmi con un mezzo sorriso sulla bocca.
"Cento su cento, veramente"
"Uh! E la lode no?"
"No, la lode no"  
"E adesso che vuoi fare?"
Ma il punto era proprio quello. Io volevo la sua benedizione per quell'impresa.
"Studi sull'uomo" risposi sul vago.
Da vecchio saggio qual era non chiese altro.
"Il fatto è che sono pochi quelli a cui è permesso studiare questi Studi sull'Uomo" aggiunsi, pregando perchè mi sommergesse dalla sua lunga esperienza di vita in merito al coraggio, alla fede, all'essere giovani. Alla determinazione, eccetera.
"Mmm" disse.
"Infatti, magari adesso sto dicendo che voglio fare Studi sull'Uomo, poi magari non mi prendono e vado a fare, che so, falegnameria, che io adoro eh! Però, insomma, è giusto specificarlo perchè voi me l'avete chiesto e quindi... Comunque non è il mio sogno, peggio. E' il mio male, il mio ossigeno, voglio sapere tutto di questi studi, sniffarli, mangiarli, non lasciare niente nel piatto, vivere di quei libri e basta."
"Studi sull'Uomo..." ripeteva il vecchio con il sigaro al lato della bocca.
"Esatto. Io è da quando avevo sei anni che sono fissata con l'umanità" dissi, ma a quel punto avevo parlato troppo.
"E che bisogna fare per fare questi Studi sull'Uomo?"
"Passare delle selezioni, tipo"
"Mmm! Si, ma che bisogna fare?"
"Studiare, io credo"
Mi lasciò un po' di tempo per farmi accorgere che io ero lì, in una campagna di luglio, quando avrei fatto meglio a studiare.
"Bene!" disse alzandosi dalla sedia e andando verso il capanno degli attrezzi. Ma io presi quel "bene" come la benedizione che cercavo.
E quindi, quella sera stessa, partii, andai lontano da dove mi trovavo. Ferma, seduta alla scrivania, imparai in un'estate nozioni di scienza, formule, definizioni, fenomeni biologici. Sentivo su di me lo strano peso delle cose che non avevo, che non sapevo, della mia ignoranza e per non essere indifferente, mi venne spontaneo tacere. Mi chiusi in una stanza, ma in realtà in quella stanza c'era il mondo, la materia. Pagine e pagine di chimica organica, matematica, Archimede. Non volevo altro che tempo e non il mare, non il divertimento.
Alcune volte mi vedevo battere le spalle contro i limiti. La paura mi spingeva ad accendere piccoli fuochi, speranze nella notte. Dubitavo di me con la stessa sfiducia riservata ai figli peggiori. Nec speraveris sine desperatione, nec desperaveris sine spe. Mi ritrovai a cambiare le mie idee, potenziarle. Quei grandi cambiamenti esprimevano l'essere e lo esaltavano, lo facevano vibrare di una nuova adrenalina perchè non stavo andando ad aggiungere ricordi, ma conoscenza. E quello che imparavo era così perfetto da non essere preda delle interpretazioni del senso comune, nè soggetto ai pudori del popolo. L'anatomia non si doveva coprire, ma scoprire. La fisica aveva forze che seguivano precise direzioni. Era dato che un corpo soggetto alla forza di gravità cadesse verso sempre e solo il basso. L'immaginazione era immaginazione. La fantasia permetteva il volo, ma la scienza alzava gli aerei nel cielo, permetteva voli reali per altri grandi voli immaginati.
Io, alla fine di quell'estate, mi sentivo addosso la mia nuova, sudata, ricchezza e pensai, di fronte al mare, in piedi sulla scogliera, che era proprio una figata pazzesca.  

04/07/13

Domande sui terrazzi coi gatti la sera

di Cristina Taliento


(Necessary Fiction, Yelena Brysenkova, oil on canvas)


16) Quanto sono invidiosi da 1 a 10 i numeri da 1 a 10 che l’8 può smettere di essere se stesso, ogni volta che gli gira, stendendosi su un fianco e diventare, alla faccia di tutti, infinito? 

17) E, giacchè ne stiamo parlando, quello che ne soffre più di tutti è o non è il 3, condannato all’amore, condannato all’essere cuore con questo simbolo < davanti?

18) C'è qualcuno in sala o nel pubblico a casa che guarda il presente con occhio nostalgico, immaginandolo già collocato nell'idealizzata nicchia dei tempi che furono?

19) Colui che ride per ultimo, poi, alla fine della risata, si mette le mani in tasca, si guarda intorno e tira su col naso sentendosi, in fondo, anche lui, un po' solo, invidiando - magari chissà, colui che rise per primo?

20) Durante una conferenza o in qualunque situazione in cui ci sono tante persone in silenzio, non avete mai paura che la vostra voce possa prendere l'iniziativa senza il vostro consenso, mettersi a urlare qualcosa e frantumare i cristalli di tutte le quotidianità?

21) Siamo sicuri che i miei neuroni non siano davvero in continua attività mitotica?

22) Non è una cosa strana quando qualcuno ci imita e noi non ci riconosciamo per niente,  però tutti ridono? Non vi pare che sia come se quegli altri sapessero una verità su di noi che noi non sappiamo?

23) E se non fossimo noi che ci muoviamo, ma, addirittura, l’Universo? 

24) Noi saremo per sempre l’epoca di quando siamo stati giovani?

25) Quando nel 2053 faranno le feste a tema sugli anni 10, i locali avranno pareti blu Facebook e i palloncini saranno celeste Twitter? Come musica, sul serio gli One Direction? Eravamo proprio noi? 

26) Cosa avremmo voluto dire e non abbiamo detto?

27) Se esiste questo ragazzo lupo, con una cicatrice sotto l’occhio e che mi vende un quadro a dieci euro e se il quadro mi ricorda lo Ionio, perché io non dovrei comprarlo?

28) Perché continuano a chiamarlo aperitivo se neanche il pranzo di Natale?

29) Non vi fa morire dal ridere che i telegiornali parlino così tanto di cani da esperimento, di cagnolini lasciati a casa durante le vacanze, di poveri cani fratelli separati alla nascita e che, invece, nessuno sappia niente delle guerre civili d’Africa, delle stragi in Kenya, del culo che si fanno i medici laggiù? AHAHAHAHAH, ma quanto cazzo abbiamo bevuto?

30) I primi tre anni di vita sono da ritenersi privilegiati perchè non saranno mai distorti dalla colla pastosa dei ricordi?