31/01/16

L'assuefazione

di Cristina Taliento


So che se ti mettono una valvola meccanica nel cuore per i primi giorni è come se ti avessero infilato un orologio dentro che fa tic-tic. Lo so perchè una volta la dottoressa che stavo affiancando visitò un paziente e senza sapere nulla di lui invitò noi studenti ad avvicinarci al letto per vedere se notavamo qualcosa. Come per la maggior parte delle volte, nessuno di noi notò niente presi com'eravamo a scannerizzare con la vista quello che solo l'orecchio avrebbe colto: un suono, due suoni, un ticchettare inarrestabile dentro il torace di quell'uomo. Era come una bomba pronta ad esplodere, una roba dannatamente continua da sopportare mentre vegli nel letto, mentre giri la minestra, mentre aspetti che gli altri ridano a una tua battuta. Tic tic tic per qualche giorno e se per caso sei già un po' matto finisci per perdere completamente il senno, senza scampo.




Ma poi accade una cosa strana. Il cervello silenzia quel rumore. Così ripetitivo, lo esclude. Non credo che ci sia un momento netto in cui smetti di sentirlo, quel ticchettio. Penso che sbiadisca dolcemente, il quarto giorno più del terzo, fino a quando è come se avessi ancora la tua valvola di carne e non fosse successo niente, non fosse successo il rumore, la paura, lo schizzo di sangue sul lenzuolo al risveglio, lo stordimento, la cicatrice, il dolore. Gli altri continueranno a sentirlo ma la persona che ce l'ha non è che non senta proprio niente, ma sente silenzio che, in alcuni momenti, è quasi la stessa cosa. E' curioso che qualcosa di così evidente, fastidioso, punzecchiante sparisca per sempre, curioso pensare a qualcosa che c'è, ma i nostri sensi non arrivano a sentirlo. No?
Per incantare per giorni gli stupidi come me bastano pensieri come questo, catene di derivazioni logiche dove  il risultato non è detto, potrebbe, ma si, però.
Allora ho chiesto a Giada: "A quante cose ci abituiamo quando nasciamo? E quando cresciamo?". Magari i bambini piangono sempre non solo per via delle coliche o perchè non sanno esprimersi. Magari piangono perchè sentono tutto, sono bombardati da miliardi di segnali, amplificano al massimo e poi piano piano sottilizzano queste capacità, per sopravvivere, per non soccombere alla totalità affinano, limano, tolgono, fino a quando modulano così tanto da stabilizzarsi intorno ad una realtà dove le cose sono così come le conosciamo. E quando arrivano all'età della parola e della memoria, dopo che hanno già escluso un sacco di informazioni, descrivono solo quello che vedono al momento. Il giallo, il verde, il blu, il rumore del vento, le note musicali, il silenzio. Ma se ci fosse dell'altro? Non so, magari qualcosa che alla nascita sentono e che quando iniziano a parlare non c'è più. Anzi c'è, ma il cervello, i nostri recettori semplicemente non lo captano. Magari dei rumori in sottofondo dell'universo. Rumori continui a cui ci si abitua. Tipo la storia della valvola cardiaca. So che a volte sono matta, ma come si fa a dimostrare l'esistenza di qualcosa che c'è ma non si sente?".

Giada masticava  Big Babol e faceva palloncini rosa che distrattamente scoppiava prima che temevi potessero esplonderle sulla faccia. "hai provato a leggere sui forum? C'è un sacco di roba lì sulla sofferenza. Tutta gratis poi. Giò ne è uscito così, quando la Silviona l'ha lasciato". Lei era convinta che stessi ancora sanguinando. 

Allora provai a spostare il mio discorso pseudoscientifico su qualcosa che catturasse la sua attenzione: "Chissà, forse è la spiegazione alla crescita. Quando sei piccolo le cose sembrano tutte giganti, poi dopo un po' ti stanchi. Quando sei piccolo ti batte sempre il cuore per tutto e con le mani è un disastro, la voce ti trema anche per chiedere alla maestra di andare in bagno. Poi inizi a fregartene, mi segui? Anzi, ti insegnano a fregartene. Già. E finisce che dopo qualche anno dici ti amo e non senti niente oppure senti silenzio che, in certi casi, sono la stessa cosa".

"Anche Youtube. Anche su Youtube ci sono dei video che aiutano a superarlo". Poi prese la borsa, borbottò qualcosa a proposito di una gelateria, e mi lasciò con i miei inutili, frivoli dilemmi.


02/01/16

Meravigliare il furfante

di Cristina Taliento





C'erano stati diversi e buffi tentativi di meravigliare il Furfante, quel nuovo lato di lei che da qualche anno, curiosamente, si annoiava. Uno di questi ad esempio era stato nuotare dritto fino a toccare il fondo, giusto per strizzare l'occhio a questo Furfante e far vedere che dietro tanta diligenza e dedizione lei era comunque capace di giocarsi tutto in tre secondi. Non è che di cadere avesse voglia, presa com'era da quella smania di sfondare tipica dei rampolli sulla ventina, ma a volte, almeno due volte all'anno, ci teneva a cadere di proposito, qualora il caso gliel'avesse evitato, per sapere chi era, se c'era ancora o se, invece, non c'erano che merletti, pacchetti, lucine, vincere, vincere, vincere. "Io non piango quasi mai". Quindi perse in memoria di sé. Perse, alla facciaccia sua.
   In realtà non andò proprio così e infatti quello che riuscì ad ottenere dal Furfante fu soltanto una risatina di compassione seguita da uno sguardo rassegnato. Voleva allentare la presa dalle cose che si era guadagnata, da quel sacco di roba che da buona formica occidentale aveva visto crescere con sudore e sacrificio, ma più voleva liberarsene per un po', per provare, per gioco, più quello la inseguiva ed era come se se la fosse proprio cucita addosso questa benedetta saccoccia di anzianità. "Eh vabbè, eh vabbè- si diceva- bene, bene così. Dai. Meglio. Significa che ormai mi appartiene, non fa niente se... non importa". Invece iniziò ad importarle tantissimo perchè si stava dimenticando di come si facesse a scrivere le Emozioni, perchè mentre lei, disperata, guardava avanti, indietro, destra e sinistra senza che nessuna macchina si fermasse per farla attraversare, il Furfante, quel pezzente, era dall'altro lato della strada a batterle lentamente le mani e a sussurrarle nel frastuono di clacson: "Brava, alla fine ce l'hai fatta a diventare Adulta". Ma lo sapeva lei che intendeva il malvagio, lo sapeva lei con che tono lo diceva. Non si riferiva all'età e neanche a quei tre semplici concetti di dovere, responsabilità, rispetto. No. Lui si riferiva a qualcosa di più complicato, a qualcosa di più sottile, qualcosa che avesse a che fare con il sentire. Il suo rimprovero la raggelava e poi la indispettiva.
"Meravigliami" diceva questo estraneo.
"Fatti i fatti tuoi!- le veniva in mente- Io non ti conosco! I cambiamenti che guadagno onestamente  li vivo come mi pare!"
"E allora meravigliami. Cos'è, non ne sei più capace?"
"Io non mi annoio mai"
"Dunque, intrattienimi"
"Io non sono la buffona di nessuno, tantomeno di me stessa".

Avrebbe continuato a negare per altri dieci milioni di anni, altrettanti a quelli che si sentiva addosso. Iniziò a leggere al Furfante i libri che in passato l'avevano folgorata. Lo vedeva smettere di sbadigliare  per poi rivederlo dormire poco dopo. Con i film non valeva nemmeno la pena provare. Per il Furfante era tutto materiale da due soldi.
"Non sai neanche scegliere un film"
"Vattene, è un film di serie A. Dovresti esserne colpito"
"Non lo sono affatto" mormorava il Furfante ipnotizzato dal buio.

Forse stava solo diventando esigente. Odiava quella parola. Neanche i dolci piacevano a quel Furfante. Aveva perso dodici chili. Tutti le facevano i complimenti. "Sei più magra" squittivano.

"Se vabbè, che te ne fai della magrezza se non ti entusiasma più un pezzo di torta al cioccolato?" mormorava il Furfante.
"Preferisco il minestrone"
"Che delusione, mi manca quella tua fame, vecchia".

A quel punto lei provò ad accettare la situazione, a guardare con occhio comprensivo l'occhio spento di certe persone.
"Io non ce l'ho l'occhio spento" però si diceva. "Non ce l'ho e mai l'avrò!" rimarcando il tutto con qualche espressione colorita.
Tuttavia si annoiava, più del solito, più di quanto avesse pensato in passato, quando una foglia secca era una fonte d'ispirazione e le stelle, lucciole magiche. Dovette ammettere suo malgrado che la musica non le dava più le stesse emozioni di un tempo. Muta, nella solitudine di una stanza, alzava il volume al massimo e rimaneva a fissare la parete bianca fino a quando il Furfante, Joe Strummer e i vicini si stancavano e iniziavano col prenderla a parole e lei spegneva tutto e se ne andava. Ma non era un impulsivo andarsene adolescenziale, un correre subito via lontano, era più un prendere visione dei fatti, infilarsi il cappotto, il cappello, i guanti, la sciarpa, la borsa, avvisare, togliersi i guanti, andare in bagno,  lavarsi i denti, rimettersi i guanti, cercare le chiavi, lasciare un biglietto e poi sbuffarsi dietro, ma senza sbattere la porta. Tanto il casino era stato già fatto.
Era così, da qualche anno. Chissà quand' era cominciata. Forse quella volta che Sally le aveva chiesto di andare a vedere quel film sui cloni e lei aveva acconsentito e mentre tutto il pubblico rideva divertito, lei nascondeva la sua totale serietà dietro la penombra azzurrina della sala di proiezione.
Oppure magari il Furfante aveva preso potere quella volta che il treno si fermò all'improvviso nel cuore della campagna, in qualche punto disperso del centro Italia e rimase lì fermo per tre ore e mezzo finché il guasto non venne riparato. Forse gli altri passeggeri persero degli appuntamenti e lei perse la voglia di arrivare a casa. Forse gli altri chiesero il rimborso mentre lei si accontentò di un letto su cui fondersi e scomparire.
Chissà. Lei non lo sapeva. Non lo accettava. Lo combatteva.
Lo combatteva alzandosi presto la mattina, innamorandosi delle cose difficili, tipo volontariato in Tibet, Monopoli con la metà dei soldi degli altri, lezioni di violino, maratona di New York, studiare con la febbre, studiare argomenti extra, studiare i misteri d'Italia, costruire mobili, imparare il russo, lavorare, cucinare, provocare le persone calme, stuzzicare le persone impenetrabili, guidare fino alla punta o fino al tacco dello stivale e urlare: "Che fine ha fatto Baby Jaaaaaane?" .

"Che schifo di persona che sei diventata" sentenziava il Furfante aggiungendo perle alla sua collana di rettitudine e saggezza.
"Forse vivere è cercare di meravigliarti o qualcosa di simile" rispondeva lei alzando la testa dal libro che in quel momento stava leggendo. Something like this. Era una canzone? Qualcuno l'aveva mai scritta? Aveva importanza? Che cos'è importante e cosa non lo è. "Bisogna capire sempre cosa è importante e cosa non lo è" ricordò. Poi si disse di smetterla e tornò a concentrarsi.