27/03/16

Le falene di Instagram e i cuori impersonali

 altre divagazioni di Cristina Taliento

È possibile che le persone diventino  delle falene, come quegli psichedelici sconosciuti che iniziano a seguirti su Instagram, totalmente impersonali e che non hanno nessun interesse per le tue foto e le tue frasi. Lo schermo si illumina qualche volta per questi nick di Nessuno che non sanno niente di te, anzi non vogliono sapere niente di te, sono moscerini della notte che svolazzano in cerca di qualcosa, di un qualcuno che li segua a loro volta e tu non sei che il loro numero per riempire la decina, quel testimone in più dei loro ego. Che cosa li importa se ti piacciono i jeans o i chocopops. Per loro sono solo foto di cibo e vestiti. Cose da categorizzare e associare e guardare velocemente, in un millisecondo, perché ciò che conta è il Cancelletto. E cento immagini il cervello le può scannerizzare anche in un minuto volendo, niente che i nostri miliardi di neuroni non sappiano fare. Il punto è: che ti importa di me? Il punto è: ti frega davvero qualcosa di me? Vuoi che ti dica che sei bello? Perché mi segui, falena? Il successo non è una cosa reale, non è come costruire una casa, imparare a lavorare la creta. Il successo è speculare su te stesso. E divertiti allora con quei 14 mila followers da cui pretendi di essere capito. Sii e basta, falena. Che diavolo te ne fai di 14 mila maschere bianche con cuori digitali altrettanto impersonali?

23/03/16

Introducendo Gianni Bisaccia

di C. Taliento

"Tale luce stroboscopica ci permette di vedere i movimenti delle corde vocali al rallentatore. Pensate alle luci da discoteca, ecco, siamo lì".


"Non ci so' mai stato in discoteca io" disse una voce di studente in fondo alla stanza. 

Il professore, chino sul paziente, alzò lo sguardo nella direzione in cui gli sembrò provenire la voce e, per capire qualcosa dello studente che aveva parlato, raddrizzò il capo e guardò quel mucchio di sagome per un altro confuso secondo. Il manifestarsi del suo consueto tic palpebrale confermò ai presenti che quella frase disordinata, sciatta e inappropriata l'aveva irritato. Poi, rassicuratosi forse dal pensiero che "non ti curar de sti stronzi maleducati ma guarda e passa", riprese a manovrare lo stroboscopio, allontanando con un gesto veloce e pulito il filo nero che gli era d'intralcio.
Gianni Bisaccia era stato quindi completamente e, per l'intrattenimento di tutti i presenti, ignorato.



22/03/16

Le vie pervie

di C. Taliento


Qui tutto normale
I fogli sono in ordine
Le persone hanno le vie pervie
Bevono i caffè
Socchiudono gli occhi se guardano
Il Sole
E poi vanno,
Continuano a camminare
Cammino anch'io
Sguardo basso, di fretta.
Qui è tutto normale.
"Ciao". "Ciao". Come va.

Ma qui niente è normale.
Sta cambiando la stagione
E i nostri cuori battono nel caos.
Attentati, sirene. Lontani.
Morti. Guerra.
"Aspetta che mi allaccio le Convers"
Anni 22. Settanta battiti al minuto.
Normoritmica.
Ma qui niente è normale.

18/03/16

A me è sembrato così

delle divagazioni di Cristina Taliento



(Madonna di San Girolamo, Correggio, pittura a olio,1528, Galleria Nazionale di Parma)


A me è sembrato che le persone siano statue antiche fatte di gesso e ripiene di pane, statue che se potessero scegliere la posizione in cui restare nel Tempo sarebbero rannicchiate. A me è sembrato che le persone si rannicchino spesso in un angolo, con le mani sugli occhi, le spalle indifese, anche se magari all'esterno camminano come se gli angoli, il buio, le paure non esistessero.
A me è sembrato che i sorrisi migliori non siano quelli cosiddetti "smaglianti", ma quelli un po' stanchi, un po' lontani e sciupati, sudati e impauriti, quei sorrisi che svuotano ai tuoi piedi uno scatolone pieno di attimi e vita.
A me è sembrato che il cielo dopo un temporale diventi color grigio balena e che la luce sia più accecante e che i polmoni aumentino la loro capacità inspiratoria. Ma questa è solo un'impressione, anzi un problema. Un problema mio.
A me è sembrato che le nostre sensibilità siano come quei piccoli oggetti dell'infanzia che finché non li prendeva nessuno potevano essere di tutti, ma se qualcuno li dava importanza, ci portavano a urlare, piangere per terra di lasciarlo immediatamente perché è mio, è mio, vattene, non lo toccare, non lo rompere, non ti permettere. A me è sembrato che i sentimenti siano proprio un gran bel casino e che non esista cosa più affascinante della mente umana, ma questa è una Banalità con la B maiuscola.

A me è sembrato che forse quella smidollata persona volesse dire qualcosa a quell'altra stupida persona però io non lo so, andavo di fretta, salivo le scale. È solo che mi è sembrato di sentire una domanda non detta, per esempio "ti va di andare a bere un caffè, una birra, una dannata minestra o qualsiasi cosa che ci faccia stare accanto?". Mah, a me è sembrato così. Però magari, chissà, quelli erano solo degli estranei. Più estranei di me che passando da lì sentivo quello che non si sarebbero detti neanche quella volta. Tanto per continuare a supporre, approssimare, senza nessuna certezza...
Oh no, è già mezzanotte e io sono ancora troppo giovane.

11/03/16

I gradini dell'ambulatorio

di Cristina Taliento



(The Entire City, Max Ernst, 1935, Kunsthaus Zurich)


Chissà come sarà un giorno, quando ci abitueremo alla morte, al dolore. Chissà come sarà quando qualcuno chiederà dopo un silenzio: "sopravviverò?".  E lo chiederà con straziante calma.
Chissà se smetteremo di sentirci diversi, cambiati, per un paio di occhi sconosciuti che tremano. Chissà se passerà quella voglia di sedersi sui gradini a respirare il fumo, quella voglia di doverne per forza parlare con qualcuno, anzi a nessuno, anzi al vento.  Chissà se vorremo ancora stare soli. Chissà se cercheremo ancora musica alta, musica altissima, in cui immergerci con gli occhi incantati nel vuoto.
È che ora i tumori sono nomi di geni, recettori, p53, genoma, cose che non le vedi, numeri, percentuali, classificazioni vecchie, nuove e chissà domani, saranno storie e figli di storie e mariti di storie da guardare, a cui dire qualcosa. Delle cose semplici, chiare, precise. Delle cose diverse da "mi dispiace".
Chissà come sarà quel giorno in cui non avremo più la paura di sostenere quelli sguardi. Quel giorno in cui ci sentiremo degni di poter stringere le loro mani con coraggio.  
Chissà se sarà. Magari nemmeno sarà, probabile. Ma, io so e lo giuro che lo so, io non chiamerò mai un Uomo che soffre come un fottuto "caso davvero interessante".

05/03/16

Pensieri di Genda - Ritratti dei tristi

di Cristina Taliento


(Ragazza con cane bianco, Lucian Freud, olio su tela, 1951-52)


Il vecchio Genda erano anni che non si arrabbiava. Si mormorava in giro che avesse un "male" al polmone. Un male talmente maligno da provocargli una disfonia organica da deficit espiratorio. Ma io lo conoscevo, sapevo che era tutta una copertura.
"Ehi signor Codardo!" lo chiamai ridendo con le mani in tasca. Eravamo vicini di scogliera. Lui aveva una casa di legno sulla roccia, una casa ancorata alla pietra come un nido di rondine, invece io passavo il mio tempo sotto, sulla spiaggia. Non lo andavo a trovare quasi mai perchè ero troppo concentrata sul mio freddo, organizzato, tranquillo lavoro. Avevo un cane, un pastore tedesco a cui davo da mangiare mentre pensavo ai cuori degli altri. Era una vita silenziosa, solitaria e impegnativa. La sera però lavoravo la maglia oppure suonavo il flauto traverso ai pesci che muovevano l'acqua illuminata dal fuoco.
Lo chiamai dal basso. Quel giorno pioveva. 
"Cos'è sta storia che sei muto?".
Lui si affacciò alla finestra, alzò le spalle. Non disse niente. 
Aspettai. 
Alla fine, sbuffò e disse:
"Beh hai perso l'educazione? Che diavolo, per quei quattro esami che hai fatto ti credi un dottore?".
Continuai a ridere, non sapendo che fare di diverso oltre che essere felice, per lui, i suoi polmoni, per me e per tutti quanti. 
Non aveva niente di analcolico da offrirmi e allora bevemmo un bicchiere di sciroppo per la tosse, io dissi che non chiedevo niente di meglio. Ma lui allungò il suo con tre dita di rum.
"Dicono che stai male"
"Mah, sai, io a certe cose non ci credo" disse bevendo un sorso.
"Manco io". Presi un libro di poesia dalla borsa. Raymond Carver. "Toh, era quello che volevi, no?"
Lo guardò per un attimo. "Grazie, ma non vorrei sottrartelo a lungo"
"No, vabbè, io non mi occupo più di poesia. Devo lavorare, non ho tempo. Ho chiuso con i sentimenti"
"Addirittura". Mi guardava dubbioso. "E che lavoro è?"
"Un lavoro di dedizione". Fece una smorfia. Sospirai. 
"La dedizione comporta un certo coinvolgimento emotivo, ragazza! Comporta un sentimento"
"Si, beh- tentennai - diciamo che è un sentimento ben ponderato, abbastanza ragionato".
"Addirittura"
"E tu, che ne è stato della tua rabbia?". Il vecchio Genda abbassò gli occhi e si guardò i palmi delle mani. Aveva ancora la fede. Per un attimo sentii il suo dolore, come una corrente fredda sul cuore. 
"Era bello sentirti inveire contro questa società un po' incasinata" sorrisi. "Era bello". 
Tirò su con il naso e mi guardò. Le sue rughe erano come la corteccia del vecchio ippocastano. Scosse la testa. 
"A volte penso che la nostra rabbia sia solo spirito di conservazione. Forse è la paura di qualcosa di rivoluzionario"
"Io per esempio- dissi- non pensavo di essere così conservatrice. Vorrei tanto tagliarmi i capelli e invece non ci riesco"
"Non è un caso che questa rabbia è tipica dei vecchi come me, abituati a un mondo diverso. Sai, io credo che noi siamo l'epoca in cui siamo stati giovani. Lo credo, davvero. Io sono e sarò sempre il Sessantotto. Io sono e sarò sempre certi ideali, certe spinte, energie silenziose che, a quell'epoca, mi crescevano dentro come un fiore che germoglia tra le ossa. Se a quei tempi mi avessero sezionato un polmone ci avrebbero trovato rose di innovazione. E' solo che un tempo si parlava dei colori e tutti avevano dei colori diversi, uno era rosso, l'altro era nero. Mentre ora io non lo so, è come se fosse tutto bianco, la gente se ne sbatte completamente le balle di tutto. Io non lo so".
"Magari- dissi io- è anche questo un ideale: vivere semplicemente senza pensare di conquistare la Dalmazia!"
"Eh ragazzina, la Dalmazia n'è mica il Sessantotto eh!". Per la prima volta rise anche lui. 
"Si, va beh, io dico che nei tempi di pace le persone sono più rilassate, parlano di come cuocere il filetto, coniano nuovi vocaboli, bevono nei weekend; sono cose concrete, voglio dire che te ne fai di un discorso sulla Democrazia quando l'importante al momento è farsi notare? Al più, il discorso sulla Democrazia, al giorno d'oggi, lo fai per far colpo". Però, come per la maggior parte delle volte, non ero mai del tutto convinta di quello che dicevo. Lo dicevo, comunque, per infastidirlo.
"Vedi? Vedi? E' questo modo di vedere le cose che non sopporto, questo addormentarsi pensando che va tutto alla grande. Ascoltami bene, Caterina, Clarissa, non mi viene il tuo nome, devi smetterla, cazzo, devi piantarla di ragionare così, di scusare questa disattenzione collettiva. Internet è il più importante, potente, mezzo che il popolo abbia avuto in suo possesso, ma pfff, è come se tutta la sua potenzialità fosse annullata. Da cosa? Da cosa mi chiedi? Bene, da tutte questi diversivi, questi social network che accentrano l'attenzione, la spostano, la indirizzano del tutto sulla cosa più debole che esista: l'Ego"
"Non sono d'accordo che l'Ego sia la cosa più debole che esista" dissi.
"Oh, fandonie, è questo Ego sciocco e autoreferenziale che non sopporto, che mi ammutolisce, che mi fa rassegnare. Gli ideali nascono in risposta a forze contrarie che noi sentiamo di dover contrastare con lo spirito, con la parola, con tutta la forza e il fiato che siamo in grado di soffiare, ma se è tutto un vociare soffuso, un vivere veloce, impegnato, di corsa, se la questione non è più essere liberi, ma di che colore tingere le pareti della propria prigione, io perdo il perchè del mio parlare. Tu mi capisci?"
"Si". Presi dalla tasca una caramella e la scartai lentamente, facendo meno rumore possibile.
"Non si tratta nemmeno di un disinteressamento alla politica, chi parla di questo, a mio parere, ha sbagliato bersaglio. Si tratta di un'ipnosi collettiva, ecco. Ad esempio tu, che diavolo di lavoro fai? Prima mi hai detto che non hai tempo nemmeno di leggere un libro di poesie"
"Un lavoro di dedizione, una cosa molto impegnativa” dissi togliendo il braccio da sotto il mento e ritornando seduta composta.
“Ah-ah che ridere, peccato che ieri sono caduto dal motorino, i medici mi hanno detto che ho la paralisi del nervo facciale, quindi non te la prendere se ho questa faccia qua, un po’ interdetta”.
Annuii, come si fa quando si accetta un rimprovero. A lui non era mai andato a genio questo mio fatto di abbandonare la Scrittura per la Scienza. Io gli avevo sempre detto che le due cose “mica s’escludevano”. E lui, mi aveva sempre detto: “al diavolo”.

“Io sono scettico. Tu lo capisci?”. Era uno dei suoi tic riperetere “tu lo capisci” in continuazione.
“Sono scettico perché ci sarebbero tante cose da dire e non riesco ad esprimerle perché a volte mi sento io a esser sbagliato e non gli altri che vivono senza uno scopo. Io pensavo di cambiare la prospettiva sulle cose, vedere il nostro mondo con occhio più comprensivo e, invece, io a certe stronzate non mi abituo! Non mi va, non mi va di vedere correre tutti da una parte all’altra come se si trattasse soltanto di riempire il tempo, non mi va che la gente debba mostrarsi sempre con questa aura di Vittoria e Sbruffoneria, non mi piace la parola sfigato, vorrei prendere a schiaffi tutti quelli che la usano. Mi fa schifo il sushi.”
“Mmm buono” dissi io.
“La vera salvezza di questi tempi è avere una cazzo di vocazione, qualcosa che ti salvi e che ti faccia amare il tempo. Qualcosa che ti spinga ad amare veramente anche un’altra persona, un amore che non sia niente di tutte quelle baggianate sullo status, sui canoni, una cosa raffinata, salva da tutta questa fanghiglia”.
“Fanghiglia” ripetei piegando la testa di lato.
“Ti prego, salvati” mi disse e mi guardò con gli occhi disperati.
Io allora dissi: “Sono apposto così”
C'era una pioggia che sarei morta.